sabato 13 dicembre 2014

Le armeggerie del 12 febbraio 1386


Era il febbraio del 1386 il freddo ancora pungente dette un po' di tregua nei giorni della candelora ,
in cui secondo il detto popolare se piove o gragnola saremo fuori dall'inverno.
Ma aimè dopo pochi giorni iniziò a nevicare forti e seguì per diversi giorni .
Era il tempo del carnevale e così i fiorentini pensarono a trarre profitto e a divertirsi.
La neve fu utile come svago agli sbarazzini, ma molestò non poco le persone per bene, che provando a uscir fuori si ritrovarono bersaglio di palle di neve, che se per caso finivano nel collo si scioglievano colando giù per la schiena e provocando intensi brividi.
La città era in mano a questi scapestrati che facevano un baccano del diavolo , andavano correndo urlando e ridendo , quasi come se non cadesse dal cielo la neve , ma venissero giù zecchini d'oro.
In ogni piazza c'era un'omino di neve, tutta la città fu per giorni come trasformata .
A quei tempi ogni età era vissuta godendo a pieno di cosa offriva, non c'era desiderio di crescere prima del tempo, i giovani non pretendevano a vent'anni di esser più saggi e più bravi dei loro vecchi.
I giovani facevano i giovani : studiavano imparavano, se era possibile ciò che è più di studiare, pensavano a divertirsi, a vivere la vita senza pensieri, e senza preoccupazioni, ci sarebbe stato tempo per diventare vecchi e brontoloni e noiosi.
sarebbe venuto da solo il tempo dei pensieri e dei doveri, di occuparsi di cose serie e mettere testa quadrata per gli affari.
Si diceva allora," ogni cosa a tempo debito", ed il miglior tempo è sempre quello che passa e che non torna più .
Altri erano gli ideali e i valori, a quel tempo i giovani seguivano i consigli dei vecchi facevano tesoro della loro saggezza ed esperienza, e pensavano a vivere la gioventù, ma nei momenti difficili e pericolosi erano i primi che, guidati dal generoso istinto giovanile, accorrevano e combattevano e morivano per l'ideale della patria.
Passato il momento del bisogno, chi di loro rimaneva vivo ritornava a divertirsi e pareva nona vesserò mai fatto altro.
In quel febbraio del 1386. di neve e carnevale, sei giovani fra i quali spiccavano anche nomi importanti, come un giovane della famiglia degli Acciaoioli, si vestirono di drappo bianco, calze e cappucci, per festeggiare il carnevale
Quella brigata bastò a ravvivare la città , e a far innamorare qualche donzella.
Allora si usava onorare la dama andando sotto le sue finestre di notte, per cantar liete canzoni d'amore accomapgnandosi con il suono delle tiorbe e dei liuti; e le fanciulle stavano nascoste dietro le finestre , ascoltavano commosse i dolci canti, che dagli orecchi andavano dritti al cuore.
Fu un lieto e gaio carnevale quello che si svolse in quel febbraio innevato, e quei giovani nonostante la neve venisse giù fitta e copiosa, continuarono a percorrere la città allietandola di canti e improvvisando danze.
Ma le armeggerie vere furono gli spettacoli fatti a cavallo, dove gioiste e giochi venivano fatti sotto le case delle dame prescelte dai cavalieri, ed esse per tanto onore divenivano una specie di celebrità.
Erano spettacoli fieri e gentili, dove destrezza e abilità guidavano i giochi e le giostre.
Il popolo andava matto per quei divertimenti e faceva folla dietro a quelle comitive eleganti nei loro costumi carnevaleschi ; il suono degli strumenti, il canto delle romanze, rendevano queste feste poetiche artistiche ed eleganti.
Ma come sempre non erano tutte rose quelle fiorivano,.
Succedeva, non di rado, che gli armeggiatori venissero ripagati con risa, lazzi spiritosi e pungenti, se non fischiati, quando l'armeggiatore nel buttar la lancia per aria, non faceva in tempo a riprenderla, oppure se per poca destrezza o per uno scarto del cavallo cascava per terra.
Non meno tremendo era il baccano e le risate, se a qualche povero diavolo, che offrendo il suo canto ed il suo cuore alla donzella a cui si era appassionata, da lei venivano gli venivano chiuse le finestre ..
Il povero menestrello oltre al rifiuto della fanciulla doveva subire lo scherno della folla, per giunta sotto gli occhi di colei cha amava e che sdegnosa aveva volto altrove lo sguardo.
La neve assieme alla grazia di quei sei giovani vestiti con drappi e cappucci, rese il carnevale del 1386 tra i più gai che Firenze ricordasse, anche se in certi momenti la gentilezza e la fierezza degli armeggiatori poteva essere coperta dalla maleducazione e dallo scherno popolare.

(liberamente tratto dal testo " fatti e aneddoti di storia fiorentina" autore Giuseppe conti )

lunedì 29 settembre 2014

La leggenda di Fonte lucente



In tempi antichi nel territorio dove in seguito sorsero, Firenze e Fiesole, c’era solo qualche capanna di pastori e cacciatori circondate da prati e fitte boscaglie.

Si racconta che di quei tempi il colle di Fiesole fosse abitato dalle fate, creature potenti aventi il dominio sulll’intero territorio ; a capo del regno vi era una regina, avente un particolare compito: istruire e sorvegliare le altre fate in modo che restassero vergine e pure come ordinava la legge .

Un giorno un cacciatore , di nome Mugnone, passando per la foresta, incontrò una giovane fata intenta a lavare nel torrente il suo mantello

Era talmente bella che il giovane se ne innamorò.

La fanciulla spiegò al cacciatore che il loro era un amore impossibile, che sarebbe ad entrambi costato la vita.

Ma fu inutile i due ragazzi presi l’uno dall’altra consumarono la loro passione ed il loro amore incontrandosi ogni volta nel punto dove si erano conosciuti .

Fu così che un brutto giorno, proprio in riva a quel torrente li sorprese la regina, la fanciulla vide la sua figura specchiata nelle acque del torrente e svenne fra le braccia dell’amato, e subito dopo le frecce reali lo trafissero insieme alla sua amata.

Mugnone con le ultime forze andò al torrente ad attingere un po’ d’acqua provando così a rianimare la fata oramai esanime, ma aimè cadde morente e il sangue si perse fra l’erba e i sassi portandosi via anche la sua vita

La fanciulla ,oramai senza vita, teneva la mano protesa verso quella del ragazzo, fu qui che la Regina delle fate si impietosì, e fece in modo che l’acqua del torrente conservasse la vita del cacciatore ed il torrente prendesse il nome di Mugnone.

Del corpo della fata ne fece una bellissima sorgente e la pose a monte del torrente, vicino all’amato, e le donò il nome di Fontelucente…

La madonna del livido




Nella cittadina toscana di Volterra, nei pressi di una chiesa vicina alla “ rampa della crocina”, era situato un antico tabernacolo, dedicato alla “ Madonna “ , intorno alla quale è cresciuta una leggenda

Si racconta di un giocatore, che tornando a casa a tarda notte, dopo aver perso, alla locanda, tutto ciò che possedeva,sopraffatto da un attacco di rabbia, tirò una sassata all'immagine della madonna colpendola nell'occhio.
Stava ancora inveendo bestemmiando , quando con un fragore profondo si aprii, sotto i piedi del sacrilego una voragine incandescente , e il malcapitato venne ingoiato dalla terra fra fumo e fiamme.
A seguito di ciò alla Vergine venne attribuito il nome di Madonna del Livido
La buca, invece, fu denominata: “ Pozzo dell'Inferno” ; si narra che nessuno sia riuscito a misurarne la profondità; il pozzo infernale rimase aperto per sette anni , nonostante la cittadinanza si fosse data da fare nel gettarci : terra, sassi e detriti nel tentativo di riempirla
La buca si richiuse solo quando vi furono gettate le rovine di una chiesa crollata.

Lasino cha volava

In epoca medioevali non erano rare le sfide fra comuni limitrofi
Fu per una di queste sfide fra San Miniato ed Empoli ,che gli empolesi assediarono la graziosa cittadina famosa per le sue torri, per poterla assoggettare.
Ma aimè l’impresa si rivelò più difficile del previsto
I sanminiatesi , si difesero dall’attacco mettendo in atto un forte e decisa resistenza , favorita dalla felice posizione della cittadina toscana.
Dopo che gli empolesi capirono che ogni sforzo si era rivelato vano, ricorsero alle minacce, trasmesse tramite un ambasciatore, ma i cittadini di San Miniato non si fecero intimorire, anzi risposero che prima della loro resa si sarebbero visti gli asini volare.
A questo punto come ben si capisce gli empolesi non sapevano più come fare, la cittadina non voleva arrendersi, fu allora che si fece avanti un contadino , il quale si offrì di dare in mano agli empolesi la cittadina , se gli avessero fornito: mille capre , mille fiaccole e l’esercito pronto per quella notte.
I comandanti non dettero subito ascolto al bifolco, ma in seguito pensarono che valeva la pena tentare e accordarono al contadino quanto chiesto.
Quando tutto era pronto e si fece buio , il contadino fece accendere le fiaccole sulle corna della capre ordinando ai pastori di spingerle attraverso la collina verso le mura della rocca di San Miniato, mentre dietro avanzavano i soldati con altrettante torce, trombe e tamburi che procuravano un gran baccano
Quando i difensori delle mura videro il buio illuminato a giorno, e sentirono tutto quel baccano, credettero che un esercito enorme li stesse assalendo , così gettarono le armi e fuggirono per la campagna
A questo punto gli empolesi con facilità si impadronirono delle mura rimaste indifese e conquistarono la città.

Da allora fino al 1860 nella festività del Corpus Domini , per ricordare la sfida dei saminiatesi e la vittoria degli empolesi , si decise di far volare con argani e carrucole , un ciuco con le ali, dal campanile della collegiata fino ad una colonna del palazzo ghibellino , sito nella sottostante piazza Farinata degli Uberti
L’usanza è poi decaduta , ma le ali del ciuco e l’imbracatura sono rimasti come testimonianza storica e sono visibili nel museo della Collegiata
La vicenda ebbe il suo cantore in Ippolito Neri, che la narrò nel poema :” la presa di San Miniato" .

Ne riporto alcune strofe

“ E l’asin prima spiegheranno l’ali
per la strada del Ciel veloci e presti,
che a questa sempre a noi nemica setta
la nostra alma Città resti soggetta”

Come sempre, come da che l’uomo ha fatto la sua comparsa su questa terra non ha mai perso occasione per mettere in luce la sua crudeltà efferata verso gli esseri più deboli e fragili

I particolari dell’usanza che prese vita dopo che gli empolesi conquistarono la città di San Miniato sono a dir poco malvagi.

L’asino era piccolo, da latte, il primo tratto della discesa era veloce, per rallentare poi alla prima curva , l’asino per lo spavento benediceva la folla sottostante che riempiva la piazza (chissà perché quando si tratta di assistere a spettacoli crudeli la gente accorre numerosa, e poi si dice scioccata) , per poi morire quando quando finiva contro la colonna del palazzo.
Non era raro che tutto questo contesto, in cui la folla era con lo sguardo fisso sul volo della bestia, e intenta a pulirsi la benedizione, desse modo ai ladruncoli di alleggerire le tasche degli spettatori ebeti.

 e avevan già sopra, quell’erte scale,
tutto di vaghi fiori e nastri ornato,
fatto salir quel timido animale
e a una doppia carrucola legato,
dove il canape infizano e lungh’ale
annestano a quel tergo delicato,
e alla fine, con grand’urla e gran fracasso,
volar lo fan , come un uccello , a basso.

E questa festa in sì degna di memoria,
pel Corpusdomin si rinnova ogn’anno,
per contrassegno della gran vittoria,
con obbligare ancora quei che verranno.
Ma qui termina il fil della mia storia,
dove persi, cred’io, sapone e ranno:
né meglio mai , poteva il mio cantare
che col volo d’un Asin terminare "

I Capassassini

Ai tempi dei nostri avi, esistevano i briganti, quelli che solitamente erano apostati dietro i cespugli per assalire i poveri viandanti.
Ma normalmente tali briganti facevano : i contadini, o i boscaioli o altri mestieri.
Erano chiamati i " capassassini" , e si racconta che si riunissero nei boschi nelle notti di luna piena.
Questa è una storia che venne raccontata da Narciso Parigi, i briganti portavano sempre il nome di Capissassini, erano briganti che dopo aver derubato le loro vittime le rapivano e bruciavano i loro corpi nel forno. Sono molte le storie che narrano le avventure di questi briganti, si tratta di curiosità astuzie che si ritrovano anche in altre leggende, oltre la Toscana, che hanno come argomento la malavita.

in questa storia, si racconta che un giorno un pollaiolo , accompagnato dal figlio, partì col suo barroccio da Campi per recarsi ad una fiera.
Imboccata la strada che conduce al passo delle Croci di Calenzano il babbo diede al ragazzo una borsa piena di soldi, perché la nascondesse sotto i vestiti e allorché i Cpassassini fossero arrivati avrebbe dovuto scappare via.
Il ragazzo fece come dettogli dal padre, ed ecco che arrivati nei pressi delle tre Croci videro due figure sinistre,
Ed il babbo disse al figlio : " vai figliolo, corri scappa!! "
Il ragazzo si buttò di sotto dal barroccio e scappò nel bosco.
Appena in tempo ! Infatti i due loschi individui si avvicinarono al barroccio, con i futili puntati e perquisirono l'uomo ,non trovando, però niente presero il barroccio ed il cavallo e tutto il suo contenuto, legarono il pollaiolo e se lo portarono via assieme al resto.
Il ragazzo, intanto era arrivato a una casa sperduta nella boscaglia.
Bussò alla potrà e si trovò davanti una vecchia signora , vedendolo così mal ridotto, coi vestiti strappati e sanguinante per le erige inferte dai rovi, durante la sua corsa, gli domandò cosa gli fosse accaduto, ed il giovane raccontò alla vecchia signora l'accaduto.
La donna lo fece entrare , e gli indicò il posto, dove potersi lavare le ferite, per poi medicarlo coma ceto e olio, e gli disse che una volta rimessosi a posto sarebbero andati dalle guardie per avere aiuto.
Mentre il ragazzo si stava lavando in una stanza dove era sistemato un piccolo lavatoio, sentì da un foro rimasto di un vecchio camino, senti delle voci nella stanza attigua.
Con sua grande meraviglia che poi si fece paura, senti la vecchia dire : " di là c'è il ragazzo che vi è scappato, è lui che ha i quattrini"
E l'uomo rispose fregandosi le mani: " bene , bene , ora ci prendiamo i soldi e poi li facciamo sparire entrambi.
Tu vecchia comincia a scaldare il forno e poi lascia fare a noi"
Il ragazzo capi che fra tutte la case era finito proprio in quella dei Capassassini , guardandosi intorno si accorse che la finestra della stanza dava sul etto, così saltò di sotto e si dette a corsa per il bosco.
Aveva paura , ed era stremato non sapeva dove dirigersi fino a che non trovò una strada , a quel punto allungò il più possibile il passo, giunse ad un paesino e andò a chiedere aiuto alle guardie.
I gendarmi chiamati i riformi, si misero in cammino per cercare la casa.
Trovata la dimora , la circondarono e catturarono i tre Capassini e la vecchia.
Fruga che ti fruga trovarono anche carroccio, il cavallo e il pollaiolo, che era stato imprigionato nella cantina.
Arrivarono appena in tempo, infatti il forno era già pronto: rosso come la brace

C'era una volta

E' proprio, questo, il caso di iniziare con la frase che tanto affascina i bambini, quando si siedono in collo alla mamma e attendono la favola.
C'era una volta a Firenze un personaggio che è sempre rimasto avvolto nel mistero, il suo nome era Girolamo Segato, detto: il pietrificatore di Firenze
Girolamo visse a cavallo dell'illuminismo del 700, appassionato di Egittologia, e quindi studioso di usi e costumi del popolo egiziano, non chè studioso dei mummificazioni dei cadaveri.
Fu proprio il rito mummificatorio che fece nascere intorno a questo scienziato, un ombra di mistero.
Infatti il Segato, fece, oggetto delle sue ricerche scientifiche , lo studiare e il cimentarsi nel produrre "mummie" o sezioni mummificate , il soprannome : il pietrificatore nacque proprio dalla tecnica che Girolamo usava nei suoi esperimenti, infatti i cadaveri che sottoponeva a mummificazione assumevano una consistenza dura, simile alla pietra, ma quello che era straordinario era che riuscì ad ottenere una perfetta conservazione tessuti.
Intorno a questo personaggio, che non ebbe mai il titolo di scienziato, nacquero domande e curiosità, su come abbia potuto raggiungere simili risultati , lo scienziato, in vita, non rivelò i procedimenti usati per la "pietrificazione", ed anche questo, comportamento, fu motivo di mistero e curiosità.
Molti dei reperti mummificati sono oggi conservati al museo Anatomico di Firenze; nel 2006 fu organizzata una mostra presso il dipartimento di Anatomia , Istologia e medicina legale dell'università di Firenze, che gli rese la fama meritata, purtroppo il mondo scientifico non è mai venuta a conoscenza del segreto di Segato per operare la mummificazione dei tessuti molli, i suoi appunti non sono mai stati trovati.
Lo scienziato morì all'età di 44 anni e fu sepolto nella basilica di Santa Croce e sulla sua lapide sono state incise queste parole:
" Qui giace disfatto Girolamo Segato, che vedrebbesi intero pietrificato , se l'arte sua non periva con lui. Fu gloria insolita dell'umana sapienza, esempio d'infelicità non insolito".

venerdì 26 settembre 2014

Il sasso di Dante

Esisteva un sasso , in una via vicino al Duomo, a Firenze, precisamente in via Dello studio, su cui Dante usava sedersi per riposare e meditare, guardando la cattedrale.
A ricordo di quel sasso oggi vi è una lapide di marmo incastonata nella parte bassa del muro con su scritto chiaramente : " Sasso di Dante"

Si racconta che il poeta fosse uomo di ottima memoria, ed a testimonianza di ciò si narra un aneddoto; un giorno mentre l'Alighieri era seduto sul " suo" sasso, immerso nelle proprie riflessioni un viandante passò di lì e gli domando:
" Dante icchè ti piace di più da mangiare ?"
" l'ovo" rispose Dante

L'anno dopo la stessa persona, che doveva essere curiosa per natura" passando nuovamente di lì e ritrovando Dante seduto nel medesimo punto sul medesimo sasso, pensò che il poeta certo non si sarebbe ricordato di lui e di cosa gli aveva chiesto l'anno prima, così credendosi furbo chiese a Dante
" co' icchè?"
E il poeta senza pensarci su rispose:
" co i' sale"

Seravezza

Si narra che a Seravezza, un piccolo paese delle alpi Apuane , esistesse in cima al monte Procinto, un albero particolare . Si racconta fosse una pianta dove volavano i sospetti per farci il nido.
Questi sospetti sarebbero poi, volati nella mente e nell'anima di coloro che venivano colpiti da dubbi e apprensioni.

Scrive Ludovico Ariosto all’inizio del secondo dei suoi 5 canti, che anticiparono l’Orlando furioso:

“ Lo scoglio, ove il sospetto fa soggiorno,
e dal mar alto da seicento braccia,
da ruinose balze cinto intorno
e da ogni canto di cader minaccia”

La finestra murata

Il palazzo Pucci, prende nome dalla famiglia fiorentina che lo fece costruire, e si trova nel centro di Firenze in una via che ha preso poi la denominazione dal palazzo stesso
Nel palazzo vi è una finestra murata , situata a piano terra, precisamente la finestra che fa angolo tra via dei Pucci e via dei Servi.
Questa finestra chiusa divenne oggetto di una leggenda.
Come narra la storia i Pucci si formarono in ricchezza e potere al tempo dell'ascesa al potere della famiglia Medici, che appoggiarono e sostennero , ma l'amicizia fra le due famiglie durò solo il tempo necessario che permise ai Medici di prendere il comando di Firenze
Allorchè la famiglia fiorentina si fu instaurata e si sentì sicura al comando iniziò a temere i Pucci, che si erano fatti troppo potenti, la vide come una presenza fastidiosa, pericolosa, in quanto, giustamente, pretesero di dividere con i medici la fortuna che avevano contribuito a creare.
Così i Medici cominciarono a subordinarli , indebolendoli e allontanandoli dal governo.
Pandolfo Pucci accortosi di ciò cambiò la fedeltà e l'amore che fino ad allora aveva accompagnato rapporto con i Signori di Firenze, in acerrimo odio accompagnato da desiderio di vedetta, prendendo addirittura parte ad una congiura nata per eliminare Cosimo I De' Medici.
Decisero di farlo uccidere dagli archibugieri della congiura che si appostarono proprio a quella finestra del palazzo che poi fu murata, davanti alla quale il Duca, ogni giorno, passava per recarsi alla Santissima Annunziata.
La congiura fu però scoperta, e il povero Pandolfo Pucci, assieme ai capi del complotto fu impiccato, a una delle finestre del Bargello.
Nonostante gli autori del progetto di morte fossero stati eliminati, Cosimo I , non riuscì ad essere tranquillo, ogni volta che passava davanti a quella finestrella temeva un appostamento nemico , e così dette l'ordine che fosse murata.
Questa si racconta come la leggenda che spiega la muratura di quella finestra, ma potrebbe, altresì , esserne la vera ragione, infatti le circostanze del periodo in cui la finestra fu murata sono esatte.
La congiura fu scoperta nel 1560 e i congiurati ebbero la sorte che veniva riservata agli autori di tali progetti.

Giunta l'ora...


Si narra che Lorenzo il Magnifico, sentito che era oramai arrivata l'ora della sua dipartita dal mondo terreno, si adoperò per cercare un frate che potesse confessarlo e assolverlo dai suoi peccati, così che potesse andare tranquillamente in paradiso.
Lorenzo scelse come suo confessore il frate : Domenico Savonarola
Il religioso accorse subito al capezzale del moribondo e si accinse a confortarlo e quando il Magnifico gli domandò se Dio lo avrebbe perdonato dei suoi peccati, il frate rispose che sarebbe bastato che il suo pentimento fosse sincero e che provvedesse alla riparazione del male .
Così Savonarola ascoltò la confessione , e quando Lorenzo ebbe finito , il frate rimase per qualche minuto pensieroso e il moribondo visto che il padre non fiatava gli domando: " allora me la date l'assoluzione?"
" si " disse Savonarola, " vi assolvo me vi sono da rispettare tre condizioni siete disposto a metterle in atto"?"

Lorenzo che si aspettava una confessione all'istante, rimase perplesso e chiese al padre quali fossero le condizioni .

" La prima è che siate veramente pentito di aver commesso quello che mi avete confessato, riconoscendo di aver sbagliato "

" certo!!" asserì Lorenzo

" la seconda: siete disposto a rendere quello che ingiustamente avete preso, a riparare al male fatto dando ordine ai vostri eredi che lo facciano per voi?"

" sono disposto" disse il moribondo, non troppo convinto

" L'ultima condizione è quella che vi obbliga a dare ordine ai vostri eredi di rendere la libertà a Firenze e al suo popolo"

A questo il Magnifico non fiatò, ma si girò nel letto voltando al frate le spalle, che capendo al volo, se ne andò senza una parola e senza assolvere il principe che fra non molto sarebbe stato al cospetto di Dio a fare i conti...

Ad ogni castello il suo fantasma

Come ogni palazzo antico che si rispetti, anche Palazzo Vecchio a Firenze nasconde i suoi fantasmi.
Fra i tanti fantasmi che la storia fiorentina racconta, uno in particolare evocava terrore : il fantasma di Baldaccio D'Anghiari.
Si racconta che dopo la sua morte il suo fantasma girasse nelle stanze di Palazzo Vecchio, e che bisognasse stere bene attenti a non nominarlo invano, a parlarne con il massimo rispetto, e a bassa voce o la l'ira del fantasma si sarebbe scatenata sul povero malcapitato mortale
Baldaccio D'Anghiari era un valoro condottiero, uomo di grande coraggio e intelligenza, Macchiavelli lo definisce :

" uomo di guerra eccellentissimo, perchè in quelli tempi non era alcuno in Italia che di virtù di corpo e d'animo lo superasse; ed aveva intra le fanterie perchè di quelle sempre era stato capo, tanta reputazione che ogni uomo estimava con quello in ogni impresa e a ogni sua volontà converrebbono".

Era un personaggio, militare, di spicco nella firenze del '400, protagonista di battagli importanti, un tipo che la storia ha poi definito alquanto stravagante e mercenario.
Lasciò giovane il suo castello di Anghiari, un ridente paesino della campagna Aretina, passò la sua vita fra campi di battaglia e palazzi di potere toccando ogni punto della penisola Italiana
Furono diversi i signori per cui combattè, e come ogni storia medioevale che si rispetti, si creò nemici in ogni dove, uno di essi, fu l'allora Gonfaloniere di Giustizia di Firenze, che decise di vendicarsi per un affronto subito, chiamo' Baldaccio a palazzo vecchio e lo fece uccidere a tradimento, e le cronache del tempo raccontano che il soldato fu assalito, ferito e gettato giù dalle finestre , nel cortile , e come se non bastasse gli fecero pure tagliare la testa che fu esposta nella piazza Signoria

Da allora si raconta che il fantasma del Boldaggio si aggiri nei meandri di Palazzo Vecchio aspettando il momento per vendicarsi, e si narra come la sua presenza immaginaria serva a ricordare le ingiustizie del passato .
Si narrra, inoltre che il sei settembre di ogni anno faccia visita al suo castello di Anghiari .

Il bove e la finestra


         


Chi guarda il Duomo di Firenze dai marciapiedi di via dei Servi, collocata sopra una mensola fra due archi , sotto il ballatoio, può vedere una testa marmorea di bove con un bel paio di corna , .
Cosa ci faccia il bove affacciato a quell'altezza se lo sono domandati in molti..
Fra le tante leggende ve ne una curiosa e simpatica, che racconta che la scultura sia stata collocata là dalle maestranze a ricordo d'una storia d'un tale che lavorava sulle impalcature durante la costruzione della cattedrale .
Era un muratore , e della posizione nella quale si trovava, aveva iniziato a sbirciare dentro le finestre che gli stavano davanti.
Da una di queste si vedeva una stanza dove , seduta su una sedia stava a cucire una bella sarta che,ogni tanto sollevava gli occhi per osservare i muri che stavano alzandosi davanti casa sua
A forza di sbirciatine e alzatine di occhi , fra occhiate e accenni , l'uomo e la donna, si capirono tanto bene da trovarsi spesso in quella casa, quando il marito era fuori.
Si narra che gli operai avessero fatto caso al fatto che quando il muratore non c'era , la finestra della sarta si chiudeva, e il maestro muratore non era in osteria per un bicchier di vino; si racconta che il marito dell'adultera fosse proprio fra gli operai che lavoravano sulle impalcature, ma, a differenza degli altri, non si fosse mai accorto di nulla...così le maestranze, si dice abbiano voluto , con quella testa di bove, rappresentare il terzo involontario protagonista della storia,

mercoledì 24 settembre 2014

La Verna



Si racconta che nella primavera del 1213 Francesco d’Assisi stava attraversando la regione del Montefeltro, quando la sua attenzione venne richiamata dagli schiamazzi di una festa che si svolgeva nel castello di San Leo .
Salì al castello, montò su un muretto e lanciò il tema della sua canzone d’amore : “ Tanto è quel bene ch’io aspetto , che ogni pena m’è diletto “
Le sue parole fecero richiamo di folla, e tra gi ascoltatori vi era il conte di Chiusi in Casentino: Orlando Catani, rimase quasi rapito dalle sue parole tanto che appena Francesco ebbe terminato la sua predica , il conte gli si avvicinò e gli domandò ascolta per narrargli i fatti della propria anima
Francesco acconsentì, il conte trovò conforto e pace nelle parole di Francesco, durante il colloquio anche il conte però intuì un desiderio nascosto nell’anima del religioso, e per ringraziarlo gli fece un offerta che gli parve adatta al desiderio del Santo, volto alla icerca della solitudine per consolidare la sua appartenenza a Dio .
Orlando possedeva in Toscana un monte dal nome Vernia; era luogo solitario e selvatico adattissimo a chi volesse far penitenza o semplicemente vita solitaria, . Un luogo lontano dalla gente, questo luogo offrì al santo
L’offerta piacque a Francesco e dopo aver constatato che il luogo era proprio come il conte lo aveva descritto accettò con gioia.
I fioretti narrano che quando vi si recò fu accolto alle falde del monte da uno stormo di uccelli , che con il loro battito d’ali diedero al Santo il benvenuto
Francesco radunando i suoi frati compagni disse che questo era segno del compiacimento divino .
Fu così che la Verna divenne un luogo dove ogni anno Francesco passava prolungati periodi di ritiro, anche se non è noto il numero delle volte che vi è salito.
Noti, invece sono i fatti della quaresima di San Michele sul finire dell’estate del 1224, pare che questa sia stata l’ultima volta in cui Francesco sostò all’Averna.
Era stanco ed ammalato, non guidava più personalmente il suo ordine, aveva avuto da parte del Papa Onorio terzo (29 novembre 1223) la sicurezza dell’approvazione della Regola francescana, in essa aveva dato ai suo frati il “midollo” del vangelo, era quella la regola da seguire
Per lui cominciò un nuovo itinerario di intimità col signore
Nove mesi prima , la celebrazione del natale gli permise di immedesimarsi nell’esperienza della povertà dell’incarnazione; ora lo attendeva il culmine dell’esperienza dell’amore, il dare la vita. Alla Verna ebbe il coraggio di chiedere proprio questo nelle sue notti di preghiera , e di solitudine: provare un po’ dell’amore e del dolore che Gesù sentì nei momenti nei momenti della sua morte e della sua resurrezione .
Il suo desiderio fu esaudito intorno alla festa del 14 settembre in cui si celebrava l’esaltazione della croce , fu allora che il suo corpo venne segnato dalle stesse piaghe di Gesù crocifisso
Nelle sue mani e nei suoi piedi si formarono delle escrescenze a forma di chiodi, si dice che mai la storia avesse narrato un fatto simile,
Francesco divenne la parola d’amore che per anni aveva meditato, vissuto, annunciato.




L'Averna: leggenda Francescana


Così Dino Campana narrò di quel piccolo lembo di terra Toscana a circa 60 Km dalla terra di Romagna, e trenta chilometri dalla città di Arezzo: precisamente nel casentino, a 1128 m sul livello del mare, è qui che si trova il monte della Verna, dove sorge uno dei più bei santuari d’Italia, dedicato a San Francesco D’assisi


" LA VERNA
I. La verna (diario)

15 Settembre (per la strada di Campigno)
Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera che scendono. I complimenti vivaci degli stradini che riparano la via. Il ciuco che si voltola in terra. Le risa. Le imprecazioni montanine. Le roccie e il fiume

Castagno, 17 Settembre

La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare. La pioggia à reso cupo il grigio delle montagne. Davanti alla fonte hanno stazionato a lungo i Castagnini attendendo il sole, aduggiati da una notte di pioggia nelle loro stamberghe allagate. Una ragazza in ciabatte passa che dice rimessamente: un giorno la piena ci porterà tutti. Il torrente gonfio nel suo rumore cupo commenta tutta questa miseria. Guardo oppresso le roccie ripide della Falterona: dovrò salire, salire. Nel presbiterio trovo una lapide ad Andrea del Castagno. Mi colpisce il tipo delle ragazze: viso legnoso, occhi cupi incavati, toni bruni su toni giallognoli: contrasta con una così semplice antica grazia toscana del profilo e del collo che riesce a renderle piacevoli! forse. Come differente la sera di Campigno: come mistico il paesaggio, come bella la povertà delle sue casupole! Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità! Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire nel cielo luci ancora luci. E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute.

Il canto fu breve: una pausa, un commento improvviso e misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico. Il canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente nella cadenza millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano taciute nella notte! Tutte le finestre nella valle erano accese. Ero solo.

Le nebbie sono scomparse: esco. Mi rallegra il buon odore casalingo di spigo e di lavanda dei paesetti toscani. La chiesa ha un portico a colonnette quadrate di sasso intero, nudo ed elegante, semplice e austero, vera mente toscano. Tra i cipressi scorgo altri portici. Su una costa una croce apre le braccia ai vastissimi fianchi della Falterona, spoglia di macchie,che scopre la sua costruttura sassosa. Con una fiamma pallida e fulva bruciano le erbe del camposanto.

Sulla Falterona, (Giogo)

La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sè una cavalleria di screpola ture screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu.

(Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)

Campigna, foresta della Falterona

(Le case quadrangolari in pietra viva costruite dai Lorena restano vuote e il viale dei tigli dà un tono romantico alla solitudine dove i potenti della terra si sono fabbricate le loro dimore. La sera scende dalla cresta alpina e si accoglie nel seno verde degli abeti). Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stella solitaria sullo sprone alpino e la selva antichissima addensare l’ombra e i profondi fruscìi del silenzio. Dalla cresta acuta del cielo, sopra il mistero assopito della selva io scorsi andando pel viale dei tigli la vecchia amica luna che sorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame: e risalutai l’amica senza stupore come se le profondità selvaggie dello sprone l’attendessero levarsi dal paesaggio ignoto. Io per il viale dei tigli andavo intanto difeso dagli incanti mentre tu sorgevi e sparivi dolce amica luna, solitario e fumigante vapore sui barbari recessi. E non guardai più la tua strana faccia ma volli andare ancora a lungo pel viale se udissi la tua rossa aurora nel sospiro della vita notturna delle selve.

Stia, 20 Settembre

Nell’albergo un vecchio milanese cavaliere parla dei suoi amori lontani a una signora dai capelli bianchi e dal viso di bambina. Lei calma gli spiega le stranezze del cuore: lui ancora stupisce e si affanna: qua nell’antico paese chiuso dai boschi. Ho lasciato Castagno: ho salito la Falterona lentamente seguendo il corso del torrente rubesto: ho riposato nella limpidezza angelica dell’alta montagna addolcita di toni cupi per la pioggia recente, ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi che mi facevano sognare davanti alle colline dei quadri antichi. Ho sostato nelle case di Campigna. Son sceso per interminabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso, un castello isolato e lontano: e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo e di oblio. Al di fuori si è fatta la quiete: il colloquio fraterno del cavaliere continua:

Comme deux ennemis rompus
Que leur haine ne soutient plus
Et qui laissent tomber leurs armes!

21 Settembre (presso la Verna)

Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grige nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa.

Incantevolmente cristiana fu l’ospitalità dei contadini là presso. Sudato mi offersero acqua. «In un’ora arriverete alla Verna, se Dio vole». Una ragazzina mi guardava cogli occhi neri un pò tristi, attonita sotto l’ampio cappello di paglia. In tutti un raccoglimento inconscio, una serenità conventuale addolciva a tutti i tratti del volto. Ricorderò per molto tempo ancora la ragazzina e i suoi occhi conscii e tranquilli sotto il cappellone monacale. Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavano le torri naturali di roccia che reggevano la casetta conventuale rilucente di dardi di luce nei vetri occidui.

Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della mia vita.

22 Settembre (La Verna)

«Francesca B. O divino santo Francesco pregate per me peccatrice. 20 Agosto 189...»

Me ne sono andato per la foresta con un ricordo risentendo la prima ansia. Ricordavo gli occhi vittoriosi, la linea delle ciglia: forse mai non aveva saputo: ed ora la ritrovavo al termine del mio pellegrinaggio che rompeva in una confessione così dolce, lassù lontano da tutto. Era scritta a metà del corridoio dove si svolge la Via Crucis della vita di S. Francesco: (dalle inferriate sale l’alito gelido degli antri). A metà, davanti alle semplici figure d’amore il suo cuore si era aperto ad un grido ad una lacrima di passione, così il destino era consumato! Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta di pietra si sprofonda in un’ombra senza memoria, ripidi colossali bassorilievi di colonne nel vivo sasso: e nella chiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide e la Vergine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un anfora classica rinchiude la terra ed i gigli: che appare nello scorcio giusto in cui appare il sogno, e nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il ginocchio a terra, lassù così presso al cielo:
stradine solitarie tra gli alti colonnarii d’alberi contente di una lieve stria di sole
finché io là giunsi indove avanti a una vastità velata di paesaggio una divina dolcezza notturna mi si discoprì nel mattino, tutto velato di chiarìe il verde, sfumato e digradante all’infinito: e pieno delle potenze delle sue profilate catene notturne. Caprese, Michelangiolo, colei che tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano.

Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tutto della leggenda Francescana. Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano. Ora hanno rivestito la sua cappella scavata nella viva roccia. Corre tutt’intorno un tavolato di noce dove con malinconia potente un frate..... da Bibbiena intarsiò mezze figure di santi monaci. La semplicità bizzarra del disegno bianco risalta quando l’oro del tramonto tenta di versarsi dall’invetriata prossima nella penombra della cappella. Acquistano allora quei sommarii disegni un fascino bizzarro e nostalgico. Bianchi sul tono ricco del noce sembrano rilevarsi i profili ieratici dal breve paesaggio claustrale da cui sorgono decollati, figure di una santità fatta spirito, linee rigide enigmatiche di grandi anime ignote. Un frate decrepito nella tarda ora si trascina nella penombra dell’altare, silenzioso nel saio villoso, e prega le preghiere d’ottanta anni d’amore. Fuori il tramonto s’intorbida. Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicenti lontane. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora. Lontano si vedono lentamente sommergersi le vedette mistiche e guerriere dei castelli del Casentino. Intorno è un grande silenzio un grande vuoto nella luce falsa dai freddi bagliori che ancora guizza sotto le strette della penombra. E corre la memoria ancora alle signore gentili dalle bianche braccia ai balconi laggiù: come in un sogno: come in un sogno cavalleresco!

Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Figure vagano, facelle vagano e si spengono: i frati si congedano dai pellegrini. Un alito continuo e leggero soffia dalla selva in alto, ma non si ode nè il frusciare della massa oscura nè il suo fluire per gli antri. Una campana dalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore. "

Villa medici








Partendo da Firenze ed andando in direzione di Prato, si trova un piccolo paese: Poggio a Caiano, dove in posizione collinare è situata una delle più belle ville medicee della Toscana , circondata da un parco ben tenuto, dove i vialetti sono protetti dall’ombra di cedri secolari 

La progettazione della villa, fu commissionata, agli inizi del 1400, da Lorenzo il Magnifico a Giuliano Santagallo.
Negli anni che seguirono alla sua costruzione, fu arricchita con modifiche e migliorie, sempre però tenendo intatto il progetto iniziale di Santagallo.
L'unico elemento che fu modificato radicalmente, furono le due scalinate gemelle che conduco al terrazzo esterno, il nuovo progetto fu partorito agli inizi del 1800 da Pasquale Poccianti.; a differenza dalle originali, il nuovo progetto volle le scalinate ricurve per permettere alle carrozze di transitare al coperto .
Internamente la villa è un tesoro di arte e architettura, opere che portano la firma dei più illustri artisti del periodo che va dalla fine del 1400 fino alla fine del 1500 , per poi arrivare al 1800 quando appunto fu riprogettata la scala esterna.
Nel susseguirsi degli anni la villa è sempre stata soggetta a continui restauri che l’hanno mantenuta in buona salute, nonostante questo l’opera dell’uomo non è riuscita a nascondere i segni indelebili e implacabili del tempo.
Oggi la villa medicea, è divenuta patrimonio statale, l’ingresso è gratuito e le visite interne sono guidate

Questa villa Medicea si può tranquillamente classificare fra i classici esempi di patrimonio dell’umanità che non è stato lasciato a se stesso e all’incuria del tempo .

"Il fiumicel che nasce in Falterona"



Vi fu un illustratore delle bellezze di Firenze che non si è mai firmato, e che parlando dell'aArno scrisse così:
" il fiume celebre il cui nome solo fa pensare a quanto v'ha di più leggiadro e gentile nella favola, ed a quanto vi fu di più grande nell'ingegno italiano"

Chissà in che momento questa definizione prese vita nella mente di questo anonimo scrittore; forse mentre stava seduto sulle sponde del fiume guardando il suo scorrere placido e pulito, oppure, in una giornata di sole, appoggiato ad una spaletta dei lungarni, nel tratto che da palazzo vecchio porta al ponte vecchio, guardava incantato l'acqua del fiume che attraversando la città, rifletteva nelle sue onde chiare i profili dei monumenti e dei ponti.fiorentini .
O magari seduto su una panchina del parco delle cascine guardando. i momenti di un tramonto rosso riflessi sull'acqua

Ma aimè l'Arno non fu solo poesia, e' un fiume dolce quanto ribelle, e quando rompe gli argini non ha pietà, e le sue acque da chiare e placide divenivano torbide e limacciose , muovendosi in impetuosi vortici di distruzione e morte,e là dove la corrente delle acque si appropria di un letto che non era al fiume destinato, restano solo macerie di fango.

Diverse sono state le piene dell'Arno, fra le più spaventose quella del 1333 che travolse i tre ponti rovinandoli, il più danneggiato fu il più caratteristico ponte fiorentino : il ponte vecchio, che andò completamente distrutto , a memoria di ciò furono messe due lapidi,una in lingua latina e l'altra in lingua volgare con su scritto:

" Del trentatre dopo 'l'milletrecento
il ponte cadde per il diluvio d'acque;
Poi dodici anni, come al Comune piacque,

Rifatto fu con questo adornamento."

Un'altra piena assai disastrosa, fu quella del 1557, ne dà illustrazione uno storico di quei tempi: l'Adriani e lo fa nella sua " storia di Firenze " 

" Alli 31 si settembre essendo piovuto due giorni quasi continuativamente, la sera dinanzi si mise tal rovina d'acqua che cominciando in Casentino, quasi alla fonte dell'Arno, a Stia, a Pratovecchio in un subito portò via tutti i mulini, le gualchiere, e gli altri edifizi, con abbattimento di ponti e di case, traendo dietro con l'impeto grande molte persone. Pariamente nel Mugello a piè dell'alpi sopra Dicomano , venne tamt'acqua che coperse tutto il piano della va.lle del Mugello, traendosi , dietro case, arbori, vigne, terra, e tutto quanto trovava: ed aggiuntesi insieme al Pontassieve l'acque de' fiumi, ne vennero inverso la città, con tanta furia, che facendo per la larga valle danni infiniti, entrarono con tal furore nella città alle tre ore della notte, che al primo impeto abbatterono in tutto il ponte che si chiama a S. Trinita, il quale facendo gonfiare il fiume, gittò l'acque in molte parti della città, è portò via due archi del ponte alla Carraia..
Per lo piano fuor della porta della Croce , e fuor del letto del fiume , venne l'acqua don tal ruina, che gettò in terra, la porta chiusa, e passando nella città, al primo impeto abbattè una casa, ed in un momento ebbe pieno tutto il basso della città; talmente che in più luoghi alzò nove e dieci braccia ..
Il danno de' provati fu grandissimo , che secondo l'uso del pericolo delle guerre vicine, come alcuni anni si era costumato di fare, tutte le cose da divenire si erano condotte nella città., grano, biada, olio e simili altre grasce, che si guardavano in luoghi bassi"

Lo storico continua descrivere il dopo alluvione, dove tutte le mura degli orti giacevano a terra, parlò della mota che l'acqua aveva trascinato nelle cantine e ai piani bassi delle case.
P.zza Signoria fu trasformata in un grande lago , le chiese del centro furono tutte allagate .
Il maggior numero di vittime fu contato nelle campagne.

Tra la piena del 1333 e questa del 1557, ce ne furono altre 19 , ma furono di minore importanza infatti i libri di storia le registrano a titolo di cronaca del tempo , ma senza approfondimenti.

Proprio a seguito delle numerose piene, si pensò di proteggere Firenze dal suo fiume deviando il corso dell'Arno in modo che non attraversasse più Firenze
Certo la città avrebbe avuto meno mota e meno danni, dal 300 ad oggi, però pensiamoci un attimo, : Firenze senza il suo fiume non avrebbe perso parte del suo fascino?
Il progetto di deviazione del fiume fu presentato dal Dott. Giovanni Targioni Tozzetti, il suo progetto proponeva di voltare tutt'intono l'alveo del fiume al di sopra del Girone (rione alle porte della città) , portandolo a comunicare con L'Ema , e di qui nella Greve, per poi farlo riconvogliare nel suo letto primitivo quattro miglia al di sotto di Firenze.
Questo progetto ebbe i suoi fautori, specie in coloro che avevano vissuto la devastazione delle piene, ma fortunatamente non mancarono avversari avveduti che fecero notare , come per ovviare a un male considerevole, se ne producessero molti altri più seri.
Infatti cosa sarebbe divenuta Firenze se privata del suo migliore ornamento, fra le tante cose anche ispiratore di poesia e sogni nel contesto dei suoi lungarni e dei suoi ponti che nell'Arno rispecchiavano i loro profili , che sarebbe stato di quest'immagine se il fiume fosse stato ridotto a una semplice fossa, senza contare i pericoli per la pubblica igiene mancando un rapido deflusso delle cloache?
No decisamente togliere l'Arno a Firenze sarebbe stato un grosso sbaglio...il fiume è uno dei simboli principi della città, sarebbe finita che i fiorentini avrebbero assurdamente rimpianto anche le sue piene..solo chi vive e ama Firenze sa quanto quel fiume sia importante per la città
E come tutte le cose, ha avuto i suoi giorni di letizia e i suoi giorni di dolore, ma credo che nessun fiorentino avrebbe voluto , vedere al suo posto un misero rigagnolo d'acqua , e non lo vorrebbe nemmeno oggi , tempo in cui il fiume ha perso la sua limpidezza e le sue acque poco hanno del profumo di secoli fa.

Erano quelli i secoli in cui il fiume Arno fu teatro di feste, che si svolgevano sulle sue acque , sia d'estate che d'inverno quando le sue acque si gelavano.
Una delle feste grandiose che furono organizzate sul fiume si svolse nel 1868 in occasione delle nozze del principe Umberto con la principessa Margherita.
In quell'occasione l'Arno fu illuminato per tutto il suo tratto che attraversa Firenze .
Sulle spallette dei ponti furono accesi piccoli fuochi , mentre da una sponda all'altra del fiume furono attaccati festoni di lauro e archi ornati con lampioncini illuminati .
Nei pressi delle cascine erano state allestite decine di barche , su alcune di esse veniva servita la cena, accompagnata dal suono di mandolini e chitarre, che accompagnavano il canto di canzoni popolari.
Il tutto accompagnato da fuochi di artificio, a tutto questo il popolo fiorentino partecipava con gioia, erano rare allora le feste, ed ogni festa era goduta a pieno.
Una delle ultime ghiacciate dell'Arno fu nel 1871, quell'anno il gelo fu così intenso da permettere ai carri di transitare sulla crosta ghiacciata.
Il fiume fu per molti giorni invaso dalla folla di pattinatori , con gente appoggiata allle spallette a godersi quel gaio spettacoli fatti di risa e capitomboli.
E naturalmente il piccolo commercio non mancò di allestire bancarelle dove si vendeva un po' di tutto, dalla polenta al castagnaccio a porzione di pasta asciutta, dalla saporita ciliegina in guazzo al vin toscano.

Agli storici fiorentini non è mai mancata la materia per raccontare delle vicende che videro l'Arno come protagonista.
Persino Carlomagno, un dì lo traversò col suo esercito, su di un ponte di legno improvvisato , che congiungeva le due rive, sistemato là dove poi sorse il Ponte Vecchio, e tanti altri umili ricordi nei quali sempre si afermerà l'allegria del popolo fiorentino, che almeno in passato , sapeva prendere da tutto l'occasione per manifestare la sua allegria e la sua vena BONARIAMENTE MORDACE 

( liberamente tratto dal testo: " Firenze attraverso secoli" autore Otello Masini)

Firenze




Intorno alla nascita di Firenze, si vennero a creare nei secoli un intrigo di leggende e miti.
Dante nel XV CANTO dell’inferno, definisce il popolo fiorentino 

"…qeull’ingrato popolo maligno,

Che discende da Fiesole ob antico,

E tiene ancor del masso e del macigno"

Firenze pare, e la terzina di Dante sopra citata lo confermerebbe , pare essere essere stata fondata dai fiesolani, anche se non ciò lascia adito q qualche dubbio, in quanto quando il popolo di Fiesole, alleata con una colonia romana, costruì il primo cerchio di mura sulla riva destra dell’Arno, era già presente un aggregato di capanne e di casupole quasi a somiglianza costruito su degli specchi d’acqua che ricordano un lago.

Vi fu uno studioso: Augusto guerri che si dilettava sullo studio di antichità fiorentine , questi alcuni stralci di una sua conferenza su Firenze :

“ Un lago solitario ricopre il piano dove sorge adesso Firenze e le attigue convalli, sui terreni emersi, e sulle pendici di colli rare capanne , rozzi tronchi di albero, talvolta pietre conesse e coperte di embrici primitivi, s’elevaano qua e là traverso il fogliame di vegetazione lacustre. Le circostanti alture sono coperte di selve e soltanto a nord le turrite mura di Fiesole coronano il poggio di san Francesco, e parte di qeullo di santa Apollinatre , a guardia dell’Etruiria”

“ rari gli abitanti: pescatori ed agricoltori primitivi e pastori. Nessuna traccia di industrie, nn fabbriche , né edifici che rivelino una qualunque civiltà Tutti vivono solo del prodotto del loro lavoro individuale divisi in famiglie, o in tribù sotto la spinta del comune interesse di difesa del territorio contro el violenze della natura” “ il nemico maggiore che insidia queste popolazioni , calme e pacifiche, per natura, è l’acqua. Anche perché mancano, alveoli , canali , dighe che contengano le acque quando gli uragani , le piogge si scatenano gonfiano i corsi d’acqua che travolgono tutto ciò che incontrano, dalle capanne, agli armenti, ai tereni coltivati, seminando morte e terrore”

Tutto questo a significare, come gli abitanti capirono che occorreva consolidare la valle , la sua richezza boschiva, e aprire un scolo alle acque verso il mare, tra le colinette a ponente, dove in seguito tempo, sorgerà, “Signa” una cittadina, alle porte di firenze, che diverrà florida e industriosa.

Un profondo passaggio, costruito, artificialmente, che poi le acque con erosione naturale stabiliranno sempre più, tracciando così il primo corso d’acqua che prenderà il nome di Arno:

"Il fiumiciel che nasce in Falterone,

E cento miglia di corso nol sazia"

Così a poco la vasta pianura è sgombra dalle acque che ne facevano palude, o scorrevano in piccoli alveoli, pronti a divenir impetuese acque fiumane, al primo scroscio violento di piogge.

Sulla pianura, faticosamente bonificata , dai rozzi agricoltori, la vegetazione si rinnova, dando vita a campi di grano , biada, tra i queli passeggia il dolce fiore che darà - secondo la leggenda gentile- il nome eterno a questa terra di incanti e prodigi .
E’ allora che soppraggiungono definitivamente nuovi abitatori. Scendono dal monte fiesolano, la storia nn dice se avidi di conquiste o pacifici colonizzatori


La collina di Camerata è il primo centro della nuova attività, come una cellula madre, attorno alla quale si formerà si formerà la nuova città. Le abitazioni si svilupparono sulle colline digradando fin giù allo sottostante pianura e così in principio si fondò la Villa Arnica, come pare, infatti fosse chiamata Firenze agli albori del suo rinascimento
Villa Arnina, per diritto di conquista , diviene un presidio romano. La popolazione industriosa e tranquilla per anni che comabttè e vinse le forse della natura, si trovò invece ora, a essere presto soprafatta e dispersa dall’invasione romana
E così la storia spendente di Florentia ebbe inizio con un sanguinoso conflitto
Sul suolo dove vissero felici tante famiglie si inizia ora il grande dramma della civiltà
Nell’anno 39 AC una colonia militare si stazia all’incrocio di due grandi strade che vanno da : Arezzo a Pistoia e da Siena per l’appennino , presso il più stretto guado dell’arno , proprio dove ora sorge il ponte vecchio.
E’ questa colonia militare che fonda la città in forma quadrata e regolare di stampo romano, con quattro porte principali, che immettono sulles trade anzidette

Villa Arnina è un ricordo senza storia ( un po’ come il segreto di 5 spendidi anni della mia vita) sperduta nella notte dei tempi , ma sulla sua rovina nascerà la storia che d’ora in poi sarà tracciata con carateri indelebili, insieme a quella della grandezza dell’Italia.
Fazio degli Uberti dopo averci descritto come magnifica fosse per : opulenza di vegetazione e epr l’incanto sempre vivo dei suoi poggi, dei suoi colli, ci lasciò detto:

"E quindi gli abitanti per memoria,

Poiché era posta in un prato di fiori,

Le diedero il nome bello onde si gloria"

Nel 59 A.C Giulio Cesare donò i fertili terreni della valle dell’arno ai benimeriti veterani del suo esercito

Secondo la tipologia del castrum romano il primo insediamento seguiva una struttura a scacchiera, che comprendeva solo una piccola zona , dell’attuale via Cerretani, a raggiungeva quasi piazza della Signoria
Le principali strade di traffico e commercio erano : il Cardo ( direzione nord-sud) e il decumanus (in direzione est-ovest ) , il loro punto di incontro era situato all’altezza dell’attuale piazza della repubblica.


( liberamente tratto dal testo: " Firenze attraverso secoli" autore Otello Masini)

Dal Pratomagno a Vallombrosa

Risalendo il fiume Arno, per la vecchia strada , verso Arezzo, incontriamo, un borgo unico, nel suo genere: "Loro Ciuffenna" Un paese , anch’esso, di orgine mediovale, con stradine strette e in salita, ponti antichi, che paiono crollare, se appena li tocchi, e invece sono sicuri nella loro stabilità, si pensi che hanno retto anche alla piena dell‘arno del 1966.…, Da quel paese, parte una strada, denominata: "la panoramica".che porta al Prato Magno a circa 1300 mt di altezza
La strada che porta a questo luogo, è costeggiata da abeti altissimi , che donano, ombra e fresco . Si possono osservare scoiattoli cerbiatti, che ancora saltellano liberi nel bosco. Quando sono in quei posti spesso mi viene da chiedermi "per quanto ancora questi alberi avranno vita?per quanto ancora questi scoiattoli, correranno nelle loro tane? " Poi mi rispondo "Nn lo so, per ora tutto questo c’è ed è possibile, ed è giusto e bello goderne e sperare che esiterà per sempre"…

Ripartendo dal prato Magno e procedendo sull’altro versante, si arriva in Secchieta; un luogo a circa mt 1400 di altezza, nn vi sono alberi di alto fusto, ma solo fiori e piante a cespuglio, o di basso fusto.
Questo luogo ricorda un poco i passi alpini sopra i 2000 Mt. E‘ infatti un luogo sassoso, e con pochissime abitazioni.

Interessante sapere che, poiche è un luogo aperto esposto ai venti, sul suo territorio, vi sono state poste pale eoliche per la produzione naturale di energia elettrica, che alimenta buona parte della zona. . E‘ ancora un metodo in via sperimentale, ma sembra dare risultati positivi.

Per ultimo ma nn da sottovalutare, la presenza di un piccolo bar dove si degustano dei panini al prosciutto, nostrale , accompagnate da un buon bicchiere di vino toscano.

Scendendo , verso valle, si percorre una strada ricca di vegetazione , formata da alberi altissimi, e costegiata da deliziosi corsi d’acqua, e piccole cascate, Durante la strada si incontrano piccole case, in legno. Sparse, nascoste , nella tranquillità, del verde quasi invisibili agli occhi di chi passa di li.
Si arriva così, più a valle, ad un altitudine di 1200 mt e si trova un delizioso paesino, Vallombrosa.

Siamo a circa 35 km da Firenze, coem già accennato ci troviamo sul versante occidentale del Prato Magno, in un‘appendice del‘appenino Tosco Romagnolo. Vallombrosa una delle località , che domina la valle dell’Arno, è rinnomata, per, per i suoi tesori culturali , artistici e naturali, per sua foresta millenaria, e per essere luogo di cultura , di spiritualità, e ricerca.
In particolare in questa zona è in corso una ricerca, sui problemi derivanti all’ecosistema forestale dall’inquinamento atmosferico. In una foresta che è stata costituita un area di studio del progetto CON.ECO.FOR. La foresta è anche luogo di esercitazioni e di studi da parte della Facoltà di Scienze forestali e ambientali dell’Università di Firenze

Il paesaggio che si presenta ai nostri occhi, è il paesaggio dei luoghi montani. Si potrebbe asserire, senza sbaglaire di molto, che i profumi, le sensazioni, che si incontrano , che si sentano, sono le stesse che si godono, immergendosi, nella natura delle alpi. La sola differenza, nn trascurabile, è che alzando gli occhi verso il cielo, mancano le vette alpine, che sembrano con le sue rocce disegnare le più strane forme, mentre delicamente si avvicinano al cielo.

Salendo verso vallobrosa dal versante fiorentino, si può osservare come man mano che saliamo, la vagetazione cambi, e come man mano che si procede, nel cammino , si aggiungano, si sostituascono, nuove specie di piante, alle painte incontrate fino a quel momento . .
Si può ammirare innumerevoli tipi di piante. Si può osservarne il loro intrecciarsi e confondersi, fra varie specie e vari colori, abbinati con maestria. . Incredibile come madre natura, assomigli alla mano, al gusto delicato e sensibile, di un abile un pittore, capace di nn sbagliare mai un abbinamento dei colori e delle varietà..

Delle varie specie di piante che incontriamo, nella riserva naturale, della zona di Vallombrosa , ne nominerò alcune, che sono le più frequenti e consociute, ho ammirato anche altre specie di piante, di cui purtroppo nn ho saputo individuare il gruppo di appartenza, e quindi ho potuto solo ammirare la loro semplicità e bellezza : Erica scoparia (Erica da scope) diffusa nei boschi cedui misti di latifoglie e conifere e nelle pinete di Pino lancio, Rubus idaeus (Lampone), Senecio fuchsii (Senecio di Fuchs), Prenanthes purpurea (Lattuga montana), nelle abetine di Abete bianco, Anemone nemorosa (Anemone), Oxalis acetosella (Acetosella dei boschi), Luzula nivea (Erba lucciola) nelle faggete. In primavera, numerosi altri fiori, quali Crocus albiflorus (Zafferano alpino), Scilla bifolia (Scilla silvestre), Hepatica nobilis (Erba trinità), adornano la foresta di svariati e contrastanti colori.. Castanea sativa (Castagno) in purezza e variamente consociato con Quercus cerris (Cerro), Acer pseudoplatanus (Acero montano), A. platanoides (Acero riccio), A. opulifolium (Acero alpino), A. obtusatum (Acero d’Ungheria), Ostrya carpinifolia (Carpino nero), Carpinus betulus (Carpino comune), Fraxinus ornus (Orniello), Corylus avellana (Nocciolo), Prunus avium (Ciliegio) e con le conifere indicate in precedenza.

Un posto , oserei definire magico, in cui sembra di trovarsi nel cuore delle alpi, si incontra, a pochi km da Reggello , voltando a destra, lungo la strada che porta a Vallombrosa . E' denominato "cascina vecchia". Per arrivarci una strada di montagna nn asfaltata dove , se in macchina, bisogna procedere con cautela, per nn rischiare di spacare gli amortizzatori.

All'inizio, la strada è fiancheggiata da alcune case, poi man mano che si procede gli alberi e la vegetazione prendono il posto delle costruzioni in muratura. Fatti c.a dieci km, ci troviamo in un posto che ci accoglie fra l'ombra, e la frescura di alberi altissimi e fittissimi, un luogo che da il senso dell'infinito e della pace. Sotto vi scorre un piccolo torrente dia cqua limpida , attraversato da un grazioso ponte di legno, e sopra gli alberi, tanti rifugi costruiti dai bambini, che d'estante alloggiano nella fattoria che sorge a pochi mt,
Essa è costruita su un grande paizzale, di proprietà della diocesi di fiesole, è allestita a colonia estiva. Li i bambini vivono per un mese una vita, totalmente diversa da quella che conducono durante gli altri mesi. Alla guida di persone adulte e competenti, si organizzano per vivere una vita all'aria aperta, lontano da televisone , telefono, compiuters. Anche la sera vengono portati a fare piccole escursioni nei boschi alla luce delle stelle, e della luna, se c'è, con l'ausilio solo delle torce. Mia figlia mi raccontò che era rimasta colpità dai diversi rumori, che vi erano nel bosco durante il giorno e durante la notte.

La sera si coricavano dentro un sacco a pelo. La mattina dopo alzati una sana colazione e poi via a vivere la montagna come deve essere vissuta. Poi al loro ritorno una bella sana mangiata. I ragazzi si alternavano in cucina a servire a tavola e a pulire, persino il pane facevano nel grande e meraviglioso forno a legna di cui il posto era dotato. insomma un posto da mille e una notte.
Dalla cima più alta , si poteva ammirare, da un lato le cime del prato magno, e dall'altra la valle dell'arno,. Se si guardava lo spazio davanti a noi e si protendevano le braccia in avanti , con la mente si poteva sognare di fare un tuffo nel vuoto, per ritrovarsi nella città del poeta, che alcuni hanno definito "divino" altri "maledetto"

Ritornando poi sulla strada provinciale, e continuando a salire verso vallombrosa , rincontriamo gli stessi tipi di vegetazione che si alternano nella parte della riserva naturale , di cascina vecchia, sempre facente parte del comprensorio di Vallombrosa. . Troviamo Abies alba (Abete bianco), che occupa oltre il 50% del territorio della riserva, è un tipo di abete molto resistente alle inteperie, purtroppo però la sua resistenza nn è stata tale, riguardo alle piogge acide, provenienti dalla vicina centrale di Santa Barbara, che produceva energia elettrica, attraverso la combustione del carbone. Ora che, da qualche anno la centrale, è stata chiusa, queste piogge sono cessate, e gli abeti , come tutta la vegetazione della zona, hanno ripreso un po’ del loro antico vigore, .Gli alberi , accanto ai rami ormai secchi, stanno ributtando nuovi talli verdi, questo è come segno di speranza per questa foresta, anche se certamente ci vorranno decenni prima che la natura rimedi all’azione distruttrice dell’uomo, sperando che nel frattempo, nuove piogge inquinanti nn fermino la lenta e paziente azione ricostruttrice della natura. Vi sono alberi che hanno adirittura un secolo di vita. Ed , anche se stanno riprendendosi è cmq triste vederli ridotti a metà del loro antico spendore.

All’abete bianco seguono le vegetazioni di Fagus sylvatica (Faggio), estese nelle zone più alte, di Pinus laricio (Pino laricio), di provenienza calabrese, presenti, soprattutto, alle quote inferiori, e di Pseudotsuga menziesii (Douglasia o Abete americano), di origine nord-americana, i cui maestosi esemplari (alcuni di altezza superiore ai 50 m) svettano tra le fustaie di Abete bianco.
Una particolare curioso e da un certo lato, può dirsi : affascinante .è osservare ai piedi di questi secolari e maestosi alberi, le loro radici, che nel tempo sono fuori - uscite dal terreno formando dei perfetti intrecci , che hanno dato luogo ai disegni più vari
La zona di Vallombrosa è costeggiata da un piccolo torrente , denominato : "Borro di Lagacciolo", che è poi quello che scorre sotto il delizioso ponte di "Cascina vecchia".

In questa zona vi sono numerose piccole cascate di acqua limpida e fresca che scendono dalle cime più alte dell’appennino, cascate ricche di acqua nei periodi invernali e primaverile, o comunque delle piogge, ma haimè secche nei periodi estivi.

Di Vallombrosa è rinnomato anche il suo prato, una distesa verde e ben tenuta, che sembra avere la funzione di un solario naturale, con qualche piccolo arbusto qua e là, al limitare di un bosco dove gli alberi, sono talmente fitti da dare un ombra , un silenzio, una quiete, quasi irreali

La località, è ancora più gradevole in primavera, quando una notevole varietà floristica , ricopre i boschi e i prati , facendo da cornice al mondo, inoltrato nel fitto bosco, avente un atmosfera che ricorda il mondo dei racconti dei folletti e fate…

Nn per ultimi ,né per importanza né per la loro presenza in numero e varietà, troviamo ,altri deliziosi e simpatici abitanti dei boschi. Sono muniti di capello, ora variopinto .ora a tinta unita, ora screziato, e ad alzarli quel tanto che basta terra, un gambo. Sto parlando dei funghi .
Nei periodi di pioggia ,seguiti da giornate soleggiate, nascono a centinaia sotto gli alberi, è infatti ormai una gradevole abitudine vedere aggirarsi per quei boschi , uomini e donne, vestiti in maniera semplice , col loro cestino in mano, e gli occhi fissi sul terreno a scovare la presenza di qualche simpatico amico, da cogliere per cucinare un buon primo a base di tagliatelle con panna e funghi, seguito da un secondo di scaloppine ai funghi accompagnate da dei buoni porcini fritti al bacio.

Poi vi sono coloro che cercano funghi nn solo per cibarsene ma anche per studi e ricerche, questa è un’altra specie umana, che necessiterebbe di ulteriori seri approfondimenti. Però a dire il vero, quando , vestiti con un completo di cacciatore, il cestino in mano sono chini con gli occhi sul terreno a cercare un piccolo funghetto pronto a farsi cogliere con gentilezza e grazia, sono uguali ai semplici cercatori di funghi, e come essi , la loro figura intenta alla ricerca di quei piccoli amici, infonde nel cuore una sensazione gradevole e amica. Forse sarà, il vestito, forse sarà quel cestino, che allegramente portano sul braccio, forse sarà il sorriso di chi fa qualcosa , senza pretese, ma solo con passione, forse sarà la magia di camminare in quei boschi , fra silenzio, quiete profumi, e voglia di semplicità…forse, forse, nn so, ma lì, un micologo nn si distingue da un contadino, o un operaio , uscito al mattino per cercare i funghi commestibili, magari ricordando l' antico insegnamento del nonno che pazientemente tanto tempo fa, gli insegnò come fare a distinguere un fungo mangereccio da uno nn commestibile…..anche questa è la magia del bosco…..e delle sue cose semplici

Oltre a tutto quello , illustrato fino ad ora, nella riserva esiste uno tra i più noti arboreti sperimentali d’Europa, in cui convivono, in mirabile equilibrio, più di 3.000 esemplari di oltre 1.300 taxa, appartenenti ad 85 generi, provenienti da diverse parti del mondo

Uno dei primi arboreti sperimentali fu nel 1870, istituito da Adolfo di Berenger, primo direttore dell'Istituto Forestale, in un piccolo appezzamento della Tenuta di Paterno dove sorgeva la prima sede dell'Istituto stesso. Successivamente, con il trasferimento dell'Istituto Forestale nell'Abbazia di Vallombrosa, nel 1884 Vittorio Perona (assistente del Berenger) trasferì i piccoli esemplari di piante in un piccolo appezzamento di terreno adiacente dedicandolo a Giovanni Carlo Siemoni, studioso di selvicoltura.

Nel biennio successivo l'arboreto di ingrandì fino ad occupare più di 4 ettari di terreno prativo attiguo e questa nuova sezione fu intitolata "Tozzi" dedicandola all'abate vallombrosano Brunone Tozzi, studioso di botanica. Nel 1891 una piccola parte del vivaio arboreto fu destinata dal prof. Solla ad orto botanico e venne dedicata a Berenger, ma con il trasferimento dell'Istituto Forestale a Firenze l'orto botanico venne abbandonato: nel 1894 venne realizzato da Perona l'arboreto di "Masso del Diavolo" e fu dedicata a Romano Gellini. Questo arboreto è particolare perché fu costruito in una zona riparata dai venti di tramontana ed esposta a mezzogiorno ed in essa allignano specie arboree ed arbustive esigenti in calore che difficilmente si poteva pensare di coltivare a 1000 m. sul livello del mare

Fino al 1940 l'arboreto fu curato con regolarità ma durante la guerra fu sospeso ogni intervento fino a che nel 1970 fu considerato abbandonato visto il sopravvento che aveva preso la vegetazione naturale, ma nel 1976 l'arboreto fu ripristinato dall'Istituto Sperimentale per la Selvicoltura di Arezzo con il pieno appoggio dell'Amministrazione delle Foreste e la collaborazione dell'Istituto di Botanica Agraria e Forestale dell'Università di Firenze. La superficie del "Masso del Diavolo" è di circa 3 ettari ed è posto a una quota che va dagli 850 ai 950 m. s.l.m. e comprende piante tipiche anche della macchia mediterranea grazie al clima più mite rispetto alla foresta che lo circonda

Fra le specie presenti Acer Peronai, Cistus laurifolius, Quercus ilex, Cupressus sempervirens, Pinus, Nothofagus, Araucaria. Tornando agli arboreti principali bisogna dire che nel 1896 la costruzione della strada per il Secchiata interruppe la continuità degli arboreti Tozzi e Siemoni: nel 1911, sempre a cura del Perona, fu costituito il "saliceto Borzi" riservato alle specie più bisognose di umidità ma oggi, purtroppo, non più visibile e allo stesso Perona fu dedicata una nuova sezione dell'arboreto. L'attività di studio e di ricerca riprese alla fine della prima guerra mondiale con la costituzione dell' "Arboreto Nuovo" per opera del nuovo amministratore della Foresta demaniale prof. Pavari e questo segnò l'introduzione a Vallombrosa di specie esotiche; dal 1929 le collezioni, fino ad allora affidate alla cattedra di selvicoltura dell'Università di Firenze, passarono alla direzione della stazione sperimentale di selvicoltura oggi Istituto Sperimentale per la Selvicoltura di Arezzo.

Nel 1934 fu istituito un museo dendrologico con lo scopo di valorizzare gli arboreti e mettere a disposizione degli studiosi materiale per le loro ricerche ma nel 1944, a seguito di un bombardamento, il museo dendrologico, la palazzina e l'arboreto subirono gravi danni ai quali si aggiunsero, nell'inverno successivo, altri danneggiamenti provocati da militari e civili: solo nel 1948 fu ripristinata la recinzione e riparata la canalizzazione delle acque, non più funzionante dal tempo della guerra. Nel 1970 il numero degli esemplari rilevato era di circa 3000 piante di oltre 1200 specie mentre oggi le piante sono oltre 4000.

Agli arboreti sono state attribuite molteplici funzioni : didattiche , scientifiche , sanitarie, ornamentali, di conservazione. Nel tempo vi è stata un evoluzione culturale del concetto di arboreto, Infatti per i pioneri della dendrologia, ( Di Berenger , Perona, Tozzi) , di cui è stato accennato sopra, l’interesse primario nel realizzare la collezzione di vegetali era quello di rendere disponibile una serie di specie, prevalentemente esotiche , da studiare soprattutto, in vista di un loro possibile impiego in selvicoltura o a fini ornamentali . Col sorgere della prima scuola forestale ( Pavani) , assunse maggior importanza il ruolo didattico, per quel momento riservato agli adetti del settore . Col passare del tempo gli arboreti si sono poi aperti ad un pubblico sempre più vasto ed articolato , composto soprattutto da gente di città che cerca di ristabilire un contatto con la antura . Il ruolo quindi passa da didattico ad educativo in senso alto.

L’evoluzione della società industriale , con tutti i malanni ambientali che si sta tirando dietro, ha fatto emergere una fondamentale funzione : quella di conservazione di tante specie minacciate dalle attività dell’uomo , sia direttamente che indirettamente ( deforestazione, mutamenti climatici, inquinamento ecc)
L’interesse scentifico per gli Arboreti di Vallombrosa è sempre stato notevole , in virtù delle possibilità offerte allo studio e comparazione di tante piante allevate in condizioni simili. Ma se un tempo si guardava essenzialmente alle possibilità di ambientamento e di sfruttamento produttivo delle varie entità, oggi la ricerca mira soprattutto a determinazioni genetiche, studi di ecofisiologia, patologia. Come la fondamentale importanza di conservare e sfruttare corredi genetici che rischiano di scomparire. Sono considerati facenti parte del complesso degli arboreti di Vallombrosa anche i castagneti sperimentali, che contano oltre 1500 piante con una amplissima serie di varietà e specie che vanno a sommarsi ad una collezione di oltre 4000 esemplari riconducibili a più di 1500 specie forestali ed arbustive.


La civiltà industriale ha soddisfatto i bisogni essenziali di larghe fasce di popolazione , ma ha anche creato condizioni di vita stressanti , frenetiche, malsane, innaturali. Condizioni che portano a una povertà di contenuti spirituali, e di sentimenti. L’uomo cerca allora di riqualificare la propria esistenza , di dare tono agli anni che deve passare su questa terra , anche e soprattutto a quegli ultimi che ha artificialmente aggiunto alla longevità di un tempo. Ecco dunque gli arboreti presentarsi come centri polifunzionali dove l’uomo può attingere a formidabili risorse per la qualità della propria vita, sia materiale che spirituale.

Spostando adesso l'attenzione dal mondo vegetale, posiamolo su quello animale o faunistico.
Nn mancano , i deliziosi abitanti dei boschi, che difficilmente si fanno vedere all’occhio umano, ma che osservano incuriositi, dal limitar del bosco , i movimenti di quegli esseri che forse a loro paiono curiosi, e strani: gli uomini
La fauna si trova qui , numerosa e discretamente rappresentata.
Tra i Mammiferi, si annoverano Capreolus capreolus (Capniolo), Dama dama (Daino), Sus scrofa (Cinghiale), Lepus capensis (Lepre comune), Meles meles (Tasso), Myoxus glis (Ghiro), Sciurus vulgaris (Scoiattolo) e Vulpes vulpes (Volpe);
tra gli Uccelli, oltre alle comuni specie migratorie e stanziali, fanno spicco Garrulus glandarius (Ghiandaia), Buteo buteo (Poiana), Falco tinnunculus (Gheppio), Bubo bubo (Gufo reale) e Athene noctua (Civetta). Per l’ittiofauna è da segnalare Salmo trutta forma fario (Trota fario
Scomparse da un poco di tempo le farfalle ,che un tempo erano presenti numerose, e della specie più varie, rallegrando coi loro colori il verde dei boschi.

Vallombrosa nn è solo lo scrigno dei tesori naturali, in fatti in questa piccola località sorge una delle più belle e rinoamte abazie d'Italia..

L'abazia sorge ai margini della statale, che da vallombrosa porta :, voltando verso destra al passo della consuma,dove ci si arriva per una strada, tranquilla e ombrosa, lungo la quale si incontrano numerosi laghetti e nn trascurabili luoghi di ristoro dove si puossono gustare deliziosi piatti toscani, o anche accantontentarsi di appetitose merende. Proseguendo, invece a diritto, si imbocca la strada anch'essa, pare scavata all'interno di un bosco, che conduce verso valle.

Su questa strada, incontriamo un cancelletto di ferro, che delimita l'ingresso al viale, che porta all'ngresso dell'abazia. Il viale è fiancheggiato da due file di siepi parallele che nascondono due giardini , unici nei di quel luogo: i due spazi verdi nn sono ne coltivati ne tantomeno curati.

Procedendo per il vialetto si arriva a una sontuosa porta di legno, che si erge davanti a noi, e conduce nel cortile antistante la chiesa. Appena entrati due deliziosi vasi di ortensie bianche danno il benvenuto. Entrando nel cortile della chiesa, possiamo osservare raffigurate molte immagine sacre , vi è anche un'immagine in pietra che merita di essere rammentata, è l'immagine di Dante, "poeta divino"

Entrando in chiesa ci troviamo davanti un interno arricchito da dipinti, affreschi, e ornamenti in oro, Due capelline, una per le confessioni e una dedicata alla madonna ,si trovano alla ns sinistra entrando. Prosenguendo vs l'altare e guardando in alto possimo ammirare un organo, il cui suono viene riprodotto molto bene dalla perfetta acustica della chiesa. ( riporto la foto, anche se molto buia).

Ritornando all'esterno, sulla nostra destra uscendo troviamo un luogo dove si possono acquistare dei souvenir del luogo

Ed ora un modesto e breve accenno sulla storia di Vallobrosa, dei suoi monaci , e della loro abazia

Verso il 1036 il fiorentino Giovanni Gualberto della famiglia dei Visdomini, dopo aver abbandonato insieme ad un compagno il monastero di San Miniato, giunse nel luogo, detto allora, Acquabella nel fitto di una foresta di castagni , faggi e abeti dove già i monaci Paolo e Guglielmo conducevano vita eremitica. La selva prese ben presto il nome di Vallombrosa e al primo piccolo gruppo di monaci si aggiunsero nuovi adepti. Verso il 1045 i confratelli elessero Giovanni Gualbertocome loro superiore mentre alla comunità si univano altre fondazioni in un corpo giuridico che formò col tempo la " congregazione monastica di Vallombrosa"

Le norme di convivenza seguivano la regola di san Benedetto vincolando i monaci nella povertà nalla preghiera, nel lavoro e nell'ospitalità

Alcuni eremiti dipendenti del cenobio ma desiderosi di una maggiore intimità con Dio vivevano in solitudine nella foresta in piccole celle o in anguste grotte ancora esistenti. Il monastero di vallombrosa continuò ad ampliarsi e divenne potente per le donazioni di vaste proprietà. La badia acquistò ben presto l'aspetto di un grandioso fabbricato, ( infatti la prima impressione che si ha nel vederla è di imponenza e grandezza) e fu in grado di accogliere una numerosa comunità dare ricovero ai pellegrini , ospitare illustri personaggi con il loro seguito. Originariamente si deve ai monaci la straordinaria richezza della vegetazione, base fondamentale degli studi forestali.

Il sacheggio del monastero compiuto sai soldati di Carlo V nel 1529, la soppresione napoleonica nel 1808 ed infine , nel 1866 lo sfratto e l'esproprio votato dal prlamento italiano, produssero notevoli danni. Nel 1949 i monaci poterono rientrare nell'abazia ma soltanto dal 1961 l'intero complesso di proprietà dello stato , è tornato alla disponibilità della comunità . Vallobrosa però riesce a dare un'altra immagine della sua storia, quella che si forma quando si passeggia sotto le "alte volte" della sua foresta lungo un suggestivo percorso disseminato di cappelle tabernacoli e antiche fonti a far da cornice alla maestosa abazia.

L'abzia come appunto già detto fu costruita per impulso di san Giovanni Gualberto. dopo un primo oratorio costruito in legno la comunità vallombrosana potè passare a una chiesa in pietra ( 1058) sostituita da un edificio più ampiù negli anni 1224-30, mentre anche il monastero stava prendendo corpo e volume. Dopo una fase di grandi lavori nel XV secolo, cui si devono il chiosco grande e sacrestia, la torre il reffettorio con la cucina, e dopo una lunga serie di incendi e ricostruzioni è nel seicento con ulteriri perfezionamenti nel primo settecendo , che la chiesa assunse un aspetto omogeneo e sontuoso . All'asterno il complesso mantiene tutt'oggi, col suo campanile del XII SECOLO, e la torre del XV secolo, un carettere autero e elegante, fin dal grande piazzale, circondato da alte mura , cui si accede da un bel cancelletto, di cui ho acennato più sopra, del 1773.

La facciata del monastero si deve a Gherardo Silvani ( 1637), che itervenne proseguendo l'opera di Alfonso Parigi, su disegno dell'abate Guglielmo Rasi venne edificato il complesso di fabbrica con una loggia antistante dove si trova la statua del santo fondatore del primo 600. Gli stemmi sono quelli raffigurante i Medici, e vallombrosa quest'ultimo raffigurante un bastone a forma di Tau.

L'interno è a croce latina presenta un'omogenea connotazione barocca affidata alla ricca decorazione ad affresco delle volte (1779-81) Antonio Fabbrini, e una serie di altari con tele del sei e settecento, a cominciare dalla aprete di fondo del coro, dove è posta l'Assunta del Volterrano, l'altare del Transetto a sinistra con la trinità di Lorenzo Lippi e altri altari sui qauli si trovano opere che esaltano i santi vallombrosani. Da ricordare anche "la conversione di Sauro" di Cesare Dandini. Notevole anche la capella dedicata a San Giovanni Gualberto.Pregevole è anche il coro lignco, dietro l'altar maggiore, opera di Francesco Poggibonsi (1444-46)

Altre sone di particolare interesse sono la sagrestia rinascimentale , nella quale sono esposte una tavola di Raffaellino Del Garbo, raffigurante Giovanni Gualberto e altri santi (1506) e una grande pla di terracotta, invetriata dalla bottega di Andrea della Robbia.; il refettorio con una serie di tele eseguite da Ignazio Hugford (1745); attraverso antirefettorio, si passa nell'amolia cucina ornata da un camino in pietra serena del ( 1786)

Davanti all'altare maggiore arde una lampada votiva il cui olio è offerto annualmente, regione dopo regione, dai forestali di cui San giovanni Gualberto è patrono. Detto olio viene consegnato con una suggestiva cerimonia, ogni 12 luglio, giorno dell'anniversario della morte del santo

Da Vall'ombrosa, se volessimo proseguire il nostro viaggio nn che potremmo dirigirsi che ..verso Firenze. Una città che molti poeti hanno definito magica e di sobria bellezza. Firenze una città, dal sapore speciale, dove ancora le carozzelle trainate da cavalli, vanno lentamente a spasso per le vie della città, traversando i ponti dell'arno, dove l'acqua nn è più d'argento, dove le auto hanno un po' rotto la magia che c'era al tempo in cui per le stradine strette risunavano il rumre degli zoccoli dei cavalli, le voci dei bambini, e di quelli che ormai bambini nn lo erano più, ma che ancora potevano godere sapori genuini e profumati di una città. Sapori che ora riesci a ritrvare , solo nel cuore ,se su una carozzella con gli occhi chiusi e il cuore pieno del sogni di un isola che nn c'è più, te vai per le strade di Firenze........"come è bello andare sulla carolla, sulla carozella sotto braccio alla mia bella....", o passeggiando, la sera , sui lungarni, col gli occhi rivolti all'insù , per scorgere una piccola stella che si tuffa nell'acqua del fiume, a regalare , un sogno una speranza in più....






Dal mugello ai primi lembi Emiliani

Mugello, una delle più belle zone della toscana, ricca di sorgenti , site fra freschi e ombrosi boschi, da pochi anni è stata costruita, sul fiume che lo attraversa: la Sieve , un imponete diga, che ha dato vita a un lago artificiale : il lago di Bilancino, , esso rappresenta la più grande e importante riserva d'acqua della Toscana, Dal mugello parte, anche la via di comunicazione con l'emilia. Via che per secoli è stata l'unica che metteva in comunicazione Firenze con Bologna ,

Qualche tracciato transappenninico esisteva probabilmente già nel periodo pre-romano. Ritrovamenti archeologici testimoniano la presenza etrusca su ambedue i versanti dell'Appennino. L'aumento dei traffici fra il nord ed il centro della penisola fece nascere però, già in epoca romana, l'esigenza di una "strada di valico". Nel 187 a.c. fu tracciata la Flaminia minore del 187 dal console Gaio Flaminio che da documenti del XVIII e del XIX secolo si legge "via Fiaminga", si doveva estendere dalla via Emilia al Sasso di S. Zanobi, .arrivare fino a pietra mala, da cui poi si poteva raggiungere la raticosa e proseguire in direzione di Bologna

Con le invasioni barbariche le vecchie strade maestre romane, abbandonate dalle carovane commerciali, decaddero rapidamente.

La direttrice di transito transappenninica medievale, come ci testimoniano fonti duecentesche, doveva passare per l'Osteria Bruciata (mt. 917), , per poi proseguire verso Pietramala, attraversare poi il P.sso della Raticosa (mt. 968) , per arrivare a Scaricalasino (l'attuale Monghidoro).

Nel periodo dei Comuni con la nascita di borghi fortificati come Firenzuola (1332) e Scarperia (1306). nel 1367 venne creato il valico del Giogo di Scarperia (mt. 882), dal Giogo si scendeva a Firenzuola , per risalire verso a Pietramala e quindi passare per la Raticosa, per sconfinare in Emilia

Fu questa la strada maestra che per quattro secoli assicurò il collegamento postale fra Firenze e Bologna. Il percorso richiedeva almeno due giorni e veniva fatto a cavallo e per alcuni tratti a dorso di mulo, .

La situazione dei ponti prima dell metà del ‘700 era disastrosa: se la Sieve era attraversabile all'altezza di S. Piero nel Mugello per mezzo di una struttura più volte ricostruita nei secoli, la stessa cosa non si poteva dire per il Santerno a Firenzuola che, presumibilmente, ancora nel Seicento doveva essere passato a guado

Solo il passaggio del Granducato di Toscana nell'orbita asburgica fu deciso l'ammodernamento della Bolognese, passando questa volta dal valico sulla Futa (mt. 903), in modo che fosse percorribile in ogni stagione con le carrozze a quattro ruote per i viaggiatori ed i barrocci per le merci. Sul progetto dell' Ing. Anastagi, commissionato dai Lorena, fu realizzato (1749-1762) ex-novo un tratto di parecchie miglia dalla zona di San Piero a Sieve sino a Pietramala con rivestimento "a sasso e ghiaia"; allargamenti e spianamenti furono invece previsti a partire dalla porta di San Gallo (Firenze) sino alla dogana delle Filigare, dove si entrava nel territorio pontificio.. I Lorena, decisero , poi , una variante , alle porte di Pietramala, intorno al M. Beni. Qui il tracciato fu particolarmente laborioso per le continue massicciate, allargamenti e ponti di una certa ampiezza.

Il viaggiatore francese De Brosses descrive così il suo attraversamento appenninico nel 1739:

"... ci mettemmo in cammino facendo circa cinquantacinque miglia ed arrivando lo stesso giorno a Firenze. Benchè siano soltanto ventidue leghe, si può dire che, a causa delle difficoltà delle strade, è una giornata di posta delle più dure. Bisogna incessantemente arrampicarsi o scendere per gli Appennini.
I superlativi italiani si erano sprecati a darcene una pessima idea; ma in verità è una calunnia. Vi assicuro che tutti quelli che si incontrano finchè si procede per lo Stato Pontificio, sono dei bravi diavolacci di Appennini, praticabilissimi "

Non ci fu, tuttavia, mai prima della metà del ‘700 un progetto organico atto ad intervenire al miglioramento della viabilità fra Firenze e Bologna, in particolare nelle zone di valico.


La rinnovata via transappenninica che, proprio a Pietramala ritrovava la più antica strada praticata ovvero la vecchia "postale" per Bologna, rimase, sino quasi alla fine del XVIII secolo, l'unica arteria che consentiva di scavalcare agevolmente l'Appennino Tosco-Emiliano, confermandosi sino ai giorni nostri (S.S. 65 della Futa) come la più importante via di comunicazione tra la pianura padana ed il resto d'Italia

Partendo, quindi , da San Piero Sieve e dirigendosi al lago di bilancino si imbocca la statale della Futa, dove, fra l'altro, è sito uno dei più famosi cimiteri dell'ultima guerra mondiale dei soldati americani. Durante il percorso , si incontrano deliziosi paesi montani, costruiti fra laghetti, e deliziosi boschetti.

Sono pesini di costruzione antica e contadina. Percorrendoli per le loro stradine strette, ammirando le basse casine in pietra e legno, con i tetti di ardesia adornati da deliziosi camini, si può ancora respirare il profumo di cose passate, ma sempre gradevoli a ritrovare. Come la visione di una chiesa, costruita nella parte alta del paese, che al suono delle campane annuncia festosa ogni ora del giorno, o invita alla santa messa, o annuncia tristemente la dipartita di un abitante del paese.

Paesini , questi, dove ancora, si sente, provenire dalle case il profumo del pane appena sfornato, dove ancora fuori dalla porta, si pone il bricco per freddare il latte , preso dal contadino e appena bollito,. dove d'inverno l'incondibile profumo del fumo dei camino si mischia al fresco profumo della neve, della pioggia , del freddo

Dove dalle stalle giunge ancora il profumo delle mucche, che molti chiamano puzzo. Personalmente , anche se riconosco che nn è un buon odore, lo adoro, misto ai mille profumi genuini della montagna , come adoro il silenzio di quei paesini, rotto dal muggito delle mucche e dalle voci di qualche comare o qualche bambino..

Fermiamoci dunque a Pietramala, che è sempre stato un importante nodo di comunicazioni, ed è un paese ricco di fascino naturale e leggendario

Prima però vorrei narrare la storia dell

A metà strada fra Firenze e Bologna, sorge il delizioso paesino: Pietramala..

Pietramala si presenta come l’ultimo avamposto del territorio mugellano.

Sulla parte alta del paese, sorge una deliziosa chiesa: la chiesa di San Lorenzo , ricostruita sopra l’antica Pieve di Pietramala, del XVI SEC costituisce uno dei tesori architettonici di maggiore interesse per il visitatore, vero patrimonio culturale di tutto il Mugello.

LA CHIESA DI PIETRAMALA

" Cupo il cielo non ha, nella sua notte
gonfia di vento che attorce gli abeti,
brillar di lontanissimi pianeti:
voci non ha che d’urla ininterrotte.

Come da oscure, avvolte, orride grotte
svolano intorno all’anima, inquieti
vipistrelli del cuore, i miei segreti
folli pensieri in tormentose frotte.

Negra di fronte la chiesetta inalza
la schietta vigoria delle sue pietre,
e la tenebra più la discolora:

domani forse dall’opposta balza,
contro le nubi che s’ammassan tetre,

su questa terra nascerà l’aurora ?"

Gino Altoviti (1928



Pietra mala è ricordata nella storia, per la presenza in passato del fenomeno "dei fuochi "che colpirono assai la fantasia della gente del posto e furono oggetto delle più svariate congetture anche da parte dei viaggiatori stranieri che si trovavano a percorrere la lunga e faticosa via fra Bologna e Firenze.

Alessandro Volta dopo averli visitati nel 1780 descrisse con queste parole i famosi "terreni ardenti" di Pietramala, conosciuti più comunemente come "fuochi", .

"Alla distanza di poco più d'un mezzo miglio al disotto del villaggio sul pendio del monte evvi un terreno, come un piccol campo, il quale mirato anche da lungi, vedesi coperto di fiamme, che sorgono all'altezza di alcuni piedi, fiamme leggere, ondeggianti, e di color ceruleo la notte, come s'accordano tutti a riferire gli abitanti di quelle vicinanze; in tempo di chiaro giorno queste fiamme non si scorgono che assai dappresso, e appaiono assai tenui e rossigne ".


Oggi ormai sono poche le persone che possono ricordare questo affascinante fenomeno, che per secoli e secoli ha costituito una caratteristica indelebile di Pietramala; non bisogna però stupirsi di questo se si pensa che ormai da un secolo le fiamme non sono più visibili, da quando cioè nelle zone interessate dai fuochi si cominciarono a trivellare pozzi per l'estrazione di petrolio e gas metano, il quale, uscendo dalle crepe di terreni argillosi e incendiandosi durante i temporali a causa dei fulmini, era all'origine dei cosiddetti "fuochi".

Le sorgenti dei fuochi erano localizzate in tre differenti punti, tutti situati nelle vicinanze del paese, e conosciuti con il nome di Fuoco del Legno, Fuoco del Peglio e Acqua Buia. Sembra che ne esistesse anche un quarto, detto di Canida .

Il Fuoco del Legno era situato subito sotto al paese, in una zona conosciuta ancora oggi con il nome di Vulcano, proprio a cagione di questi fuochi, ed era il più noto perché ardeva sempre ed era anche quello maggiormente visibile dalla strada principale; un viaggiatore così descrisse ciò che vide

" ... nelle notti buie e piovose le sue fiamme si univano in un fascio che veniva su tra le pietre rossastre e calcinose, tanto da potersi vedere da lontano elevarsi in alto ed illuminare sinistramente molto spazio intorno"


Il Fuoco del Peglio era situato poco lontano da quello del Legno, nei pressi dell'abitato del Peglio; questo era conosciuto col nome di Paradiso. Anche questo fuoco era quasi sempre acceso e presentava gli stessi fenomeni di quello del Legno: la terra intorno a loro aveva un colore nerastro, era untuosa e odorava di petrolio.

Il fuoco dell'Acqua Buia era situato subito al di sopra del paese, ai piedi del contrafforte arenaceo di Monte Oggioli; la bocca di questo fuoco formava un piccolo bacino dove si raccoglievano le acque, che bollivano per la risalita dei gas dal sottosuolo: a causa di ciò il fuoco era quasi sempre spento. Solamente in estate, quando il bacino era in secca, si formavano piccole fiammelle che si spegnevano al minimo alito di vento

Nel '600, quando ancora i fuochi incutevano terrore, il Fuoco del Legno era denominato l'Inferno o Bocca d'Inferno. Ciò, pare, perché i viaggiatori che si smarrivano nella notte finivano in precipizi per via di queste fiamme luminose che essi volevano seguire.

Continuando da Pietramala in direzione di Bologna, troviamo un altro luogo incantevole :Boccadirio, Devo dire che qui nn ci troviamo più in Toscana , ma in Emilia, infatti siamo già in provincia di Bologna. Però anche se nn siamo in terra Toscana, il luogo di Boccadirio, merita, ugualmente due parole.

Nel suo insieme è una valletta solitaria e raccolta, sita a 719 m.s.m., tutta circondata da aspre e ripide balze, che la racchiudono come in una conchiglia.

Nascosto fra abeti, e castagni, sorse in questa zona un santuario, in onore della Madonna che si narra, esser più volte apparsa in questi luoghi In una balza verso ponente, è stato anche eretto l'altare dove, si dice apparve ai pellegrini tutta vestita di bianco, e lì su quell’altare si celebrano i sacrifici ad onore di Lei.

Il santuario è costruito a forma rettangolare, con la presenza, da un lato di viale alberato di entrata al santuario . Dall’altra parte , due scalinate in marmo bianco, terminati in una sola, conducono alla porta di entrata del santuario.

All’interno del santuario, troviamo la tipica sistemazione dei cortili interni dei conventi. Un porticato, in alto costruito a volte da cui partono delle colonne che terminano in basso su un piccolo muretto che fa da contorno al porticato, delimitandone il camminamento . Sotto il porticato troviamo sistemate le cellette dei frati, e la chiesa, il cui interno ha spiccate caratteristiche barocche , è infatti ricco in ori e ornamenti. La chiesa è in netto contrasto con il resto della struttura. L’intero monastero, ad eccezione della chiesa ,fu progettato sia nel suo contesto che nei suoi particolari, in uno stile abbastanza sobrio, che a parer mio tanto si addice ai luoghi dove il santuario è nato .. All’interno del porticato, con ubicazione a cielo aperto vi è un delizioso praticello. D’estate ricoperto di un erbetta verde e fresca, che invita sdraiarcisi sopra. D’inverno invece lo spettacolo cambia, ma è oltremodo incantevole: su quello stresso prato vi è la neve alta, tutto l’esterno il santuario è ammantato di neve, a far da contorno a tutto ciò , boschi di abeti che mantengono sui loro rami la neve appena caduta. E’ infatti raro che in questa zona d’inverno manchi la neve.

D’estate fra i boschi troviamo deliziose cascatelle di aqua , mentre il rio scorre passando sotto le arcate del santuario

Molto spesso in estate vi è poca acqua nel ruscello, mentre in primavere e in autunno se le piogge sono presenti , il rio riassume la caratteristica tipica di un torrente di montagna, Poi col sopraggiungere dell’inverno in alcuni punti l’acqua forma delle deliziose candelette di ghiaccio, che sembrano dei cristalli attaccati ai massi del fiume, molto spesso si formano in maniera tale da formare svariati e bizzarri disegni .


. La natura di questi luoghi, con il loro fascino inconfondibile, era particolarmente adatta alle meditazione dell'anima. Per rinfrancare e purificare lo spirito Inoltre questi luoghi sono stati sempre importanti, perché da qui passavano le vie più impegnative che collegavano il Sud e il Nord della penisola italica. Basti ricordare il vicinissimo passo della Futa. C'erano poi anche altre vie mulattiere o semplici sentieri. Una di queste passava appunto dalla località di Roncobilaccio, risaliva la conca di Boccadirio e più su al monte Tavaniella, per ridiscendere poi a Montepiano, fino a sfociare in piena Toscana.