sabato 2 maggio 2015

Usi e costumi dei fiorentini (prima parte )




Lo scrittore Franco Sacchetti, vissuto nel XIV secolo, nelle sue 300 novelle , riportò diversi vivaci episodi di come i fiorentini onoravano la tavola, e il buon vino.

Vi era fra l’altro, ilc attivo gusto, da parte dei fiorentini di rintanarsi nei sotteranei , per compiere una delle funzioni più piacevoli del vivere: mangiare. (chissà se anche a loro paicevano i panini con senape wustel , a seguito una bella birra) . Los tesso scrittore a detta di molti dove essere egli stesso un buon tempone che si compiaceva della buona tavola e naturalmente , del buon vino. Si sa, specialmente in toscana, nn esiste un appettitosa bruschetta, se nn è accompagnata da un genuino e buon bicchiere di chianti.

Nelle sue narrazioni , parla spesso di allegre brigate che mangiano bevono nelle spaziose osterie , o ancora più spesso all’aperto, ( negli orti sotto folti eprgolati , dove il profumo delle vivante e del buon vino, si mescola a quello della campagna verdeggiante, e eprchè no, a profumi di uomini e donne che sapevano ancora di acqua e sapone.
Chissà che cosa penserebbe se potesse oggi vedere , le moderne portate delle vivande, la misura delle nostre porzioni, estratte da un raffinato menù, con commensali che haimè, poco ormai hanno del sapore della verdeggiante campagna toscana.

Se ritornasse al mondo e si trovasse ad ordinare secondo ilo suo gusto, certamente chiederebbe quello che era il suo piatto preferito: un’oca ripiena di agli.
Questo credo basti per capire la differenza fra la cucina di oggi e quella di seicento anni fa
Vediamo comunque di soddisfare la curiosità, che credo a questo punto nasca spontanea, sul conoscere come mangiavano i nostri antichi predecessori.

Sempre stando al Sacchetti , in una succulenta cena furono serviti : un ventre di vitella, starne lesse e sardelle in umido.
Ad un altro festino si servì: coniglio in crosta e carote indolcite. Il tacchino era gradito al pari dell’oca, e veniva farcito con marroni, e come contorno, era assai gradito, l’aglio, sia esso cotto che crudo.
E tutta qeusta roba veniva mangiata con le mani. E’ noto infatti che le forchette ebbero la loro nascita: due secoli dopo.
Ma ciò che più sorprende chi fa ricerche nell’argomento del galateo, nn è tanto il rilevare la differenza di pietanze, quanto il constatare come in fatto di mangiare vi fosse una legistazione molto ferrea, e meticolosa.

Firenze, dentro alc erchia antica,
Ond’ella toglie ancora e terza e nona
Si stava in pace sobria e pudica

A mantenere questa parsimonia contribuivano provvedevano le leggi. I signori priori di libertà assieme al Gonfaloniere, sbabilivano ciò che si doveva mangiare. Tutto era stabilito e guai a chi manguiava un piatto in più!

Meno male che allora i magistrati nn facevano le leggi solo per gli altri, e di conseguenza erano i primi a dare il buon esempio. Un eccezione per la mensa della signoria,nella quale si poteva mangiare come e qaunto si voleva. Quando però vi fossero state occasioni speciali, e si ricorreva a servire , ghiottoneriem, nn necessarie, esse dovevano essere usate in quantità fisse e prestabilite.

Logico che i privati in casa loro, coi conviventi dividevano le spese, e potevano mangiare quanto volevano nel caso vi fossero estranei nn era permesso usare più di due vivande: lesso e arrosto.
E quando fosse stato giorno di magro due vivande di pesce.
Per il lesso venivano usati tre specie di carni, e l’arrosto poteva essere composto da quattro specie di animali , resta inteso che arrosto e lesso venivano serviti in un medesimo piatto.
Del pesce se ne potevano fare due vivande , cucinandolo in diversi modi, ma usando però la stessa specie di pesce.
Ogni trasgressione a tali disposizioni era punita con una multa pari a 25 fiorini d’oro. A questa multa erano condannati; commensali, cuochi e servitori.

Questo regime così rigido, venne posto in essere fino a che i costumi nn cominciarono a modificarsi radicalmente. Però la carettistica dei fiorentini di mantenersi sobri e parsimoniosi, continuò a esistere anche dopo il trecento. . Le osterie si trasformarono poi in caffè, che venenro frequentati da ogni tipo ceto sociale. Si stabilì che in tali luoghi nn venissero serviti piatti ghiotti e invitanti , per nn allettare la gente a mangiare fuori casa.
A questo proposito è famosa nel suo latino, una delle ordinaze che stabisce potersi imbandire nei pubblici esercizi:
Torllos, fegatellos, milzas, vel pullos, vel aliquod gens avidam, vel aliqua alias pertinentia ad gulutatem sed ghiottoneriam
Alla sobrietà , fiorentina, trecetesca , che si cibava prevalentemente di : legumi, erbaggi, e frutta
“ fiorentin mangia fagiuoli” mantenyuta, anche col freno delle leggi, successe il rpincipato mediceo

Sul finire del XVI secolo l’esempio venne dal granduca Francesco. Fu noto per i disordi incredibili della sua tavola. Egli , passò alla storia per un celebre manipolatore dei veleni, oltre che per un mangiatore eccezionale.
La sua morte che avenne il 19 nottobre del 1587 , è da alcuni storici attribuita ad un avvelamento .
Ma ancora vi sono pareri dscordati sul fatto, se fosse stato lui tesso ad avvelenarsi, oppure se fosse stato avvelenato, da terzi.
Ma francesco, nn fu il solo ghiottone di quest’epoca, perss’a poco , l’usanza di imitare gli antichi romani nei disordini del mangiare, era una cosa diffusa.

Altra curiosità sulle usanze fiorentine, è conoscere come i fiorentini passavano le loro estati , che anche allora dovevano essere più opprimenti di adesso, quando i fiorentini erano costretti in anguste e strette vie in una città circondata da alte mure, qaundo Livorno era solo un castello di cattiva fama , e Viareggio un villaggio di pescatori.
La villeggiatura era allora, un privilegio di pochi ricchi, i quali possedevano sui colli fiorentini grandiose ville.
I fiorentini in gran parte passavano le estati all’ombra del cupolone, ,qaundo si intende Brunelleschi ebbe risolto l’arduo problema di come costruire la cupola del duomo.
Firenze durante l’estate mutava consuetudini di vita, se durante le altre stagioni di notte era deserta e avvolta nel silenzio, durante il caldo era animata e le sue vie, le sue piazze popolate da una folla gaia e runorosa

Leggenda vuole ceh eprsino il “divino poeta” nn disdegansse di apssar qualche ora a frescheggiare su un blocco marmoreo , che si vede murato in un angolo che fiancheggia l’attuale via dello studio, e che porta scritta un incisione “ Sasso di Dante”

Era un sasso, che si dice destinato alla fabbricazione di qualcosa di specifico, ma che poi nn lo si volle adoperare in onore al “ghibbelin fuggiasco” , altri invece sostengono che fu conservato nn in memoria di Dante ma in memoria dei tre canti da lui scritti… Fa quasi una sensazione strana inspiegabile passare epr quella via, toccare con mano quel sasso, e pensare che tanto tempo fa su quel sasso vi era seduto l’autore di una delle più belle e dolorose, e faticose e vere frasi mai sentite: “amore che nulla ha amato amor perdona” ……
Meta preferita dei fiorentini per la passeggita serale, era piazza di Santa liberata. Merita qui ricordare la parola dello storico : Francesco Doni il quale nei suoi “DIALOGHI” , così illustrò la vita fiorentina

“ In Napoli i Signori hanno per usanza di cavalcare e pigliare la sera il fresco quando i caldi assaltano. In roma si stanno per le fresche vie e per le posticce fontane a ricriarsi. A Venezia pulitissima barca sen vanno per i canali freschi , per le salate onde fuori città, con musicanti, donne e altri paiceri; pigliando aere da scacciare il caldo che il giorno eglino hanno preso. Ma sopra a tutti gli altri feschi e sopra tutti i piaceri mi par vedere i fiorentini se lo piglino maggiore; questo è ceh eglino hanno in piazza di Santa Liberata , posta nel mezzo fra il tempio antico Marte, ora San Giovanni, e il Duomo mirabile, modermo, Hanno dico alcune scale di marmo , e l’ultimo scalino ha il piano grande sopra dei quali si posa la gioventù in quegli estremi caldi, sempre vi tira un vento freschissimo e una suavissima aurea, e per se, i candidi marmi, tengono il fresco ordinatamente. Ora quivi io v’ho di grandissimi piaceri. Perché..ascolto e veggo tutti i lor fatti e ragionamenti , e perché son tutti ingegni elevati ed acuti , sempre han mille cose belle da dire. Novelle stratagemmi , favole; ragionano d’abbattimento d’Istorie, di burle, di natte , (!) fattesi l’una all’altra le donne e gli uomini parole ; nobili , degne e gentili. Si poteva stare giornate ad ascoltare quei dialoghi , spesso fatti di serenate, nn udii mai uan aprola che nn fosse onestissima e civile , ed era un gran pregio di tanta gioventù non udir mai altro che virtuosi ragionamenti. E pensare che allora nn vi era nemmeno l’istruzione obbligatoria.

Continua la dolce descrizione, di Francesco Doni, delle serate fiorentine, “ Fte conto , ceh io ci abbia a venire ognis era a questi marmi, oh che fresco , oh che vento mirabile! Io nn credo che in tutta Italia sia il più dolce passatempo di qeusto. Qui ci vien musici , qua poeti , qua matti , qua ragionammo savi , qui si dice dè gabetti, ci si contan novelle, si dà la balia a chi la tiene e si dice tutte le nuove del mondo. Mercato nuovo è un baia, il tetto de pisani l’ho per uan novella. Per un sogno la pancaccia del Proconsolo e il girar del coro , a petto ai marmi rimane a piedi”

Queste che cita il Doni erano tutte località dove si facevano le riunioni. Un altyro ritrovo serale assai frequentato, era il Canto degli Aranci, così chiamato dal giardino degli aranci dei signori Fabbrini , ricco di tali alberi odorosi.
Il girar del coro è una llusione che los torico fa alle cocchiate. Anche qeusto un intrattenimento notturno dell’estate, consistente in cocchi o carri addobbati e illuminati, sui quali prendevan posto cantori, musici che andavan girando per la città soffermandosi ai canti delle vie o in prossimità delle logge
Il posto però che aveva una tappa d’oobligo restava sempre l’attuale piazza del duomo, dove i fiorentini, prima della costruzione della basilica, si dilettavano a fare supposizioni e ipotesi su come la capella e la cupola sarebbero state costruite, vi si recavano abitualmente per vedere a che punto fossro i lavori e come procedessero, quasi, quell’opera, fosse una cosa loro, una cosa di cui sentivano di farne parte.

Si dice anche che, una volta costruito, i fiorentini stesssero a ore a naso all’insù a vedere la belezza e l’imponenza della cattedrale e della sua cupola. Pensare che oggi, di quel marmo bianco e grigio dic arrara resta solo il tono di grigio, il bianco è stato tinto dal gas di scarico degli automezzi che hanno circolato attorno alla piazza. Dal lato della cattedrale, che da sul lato di via cerretani, hanno costruito un obbrobriosa specie sdi sera con tanto di gronde, e se si passa di lì si vede la gente alzare lo sguardo riababsarlo consenso di disgusto e chiedersi a bassa voce, “ma cosa è un cosa provvisoria, o hanno voluto con un impronta moderna di protezione, rovinare anche l’opera del duomo, che tanto sacrificio a chi la costruiì, e tanta gioia ha dato ai fiorentini ceh ne hanno visto, passo passo la sua nascita? “ …..

Per i nobili, invece è noto assieme ai ricchi, avevano a disposizione le logge dei loro palazzi per raccogliervisi in occasioni di avvenimenti solenni , e nelle esteti per starvi a conversare
Vi fu un periodo , nel quale si erigevano qua e là dei palchi sui quali prendevano posto i suonatori, cantanti e poeti improvvisati
Basti dire che uno degli improvvisatori più acclamati della fine del 400 fu il Segretario della Repubblica messer : Bernardo Accolti, Lorenzo il Magnifico si dilettava egli pure a sfide poetiche , nn disdegnadosi di misurarsi con un campione del popolo minuto , soprannominato il Cardiere, onorandolo della sua amicizia ed ammettendolo , spesso, alle feste ed ai convitti che dava nel suo palazzo
V’era persino una società di letterati . A qeusti il papa Leone X accordò la facoltà di dare il titolo di poeta a chi lo meritasse, conorandolo in pubblico. ( bravura nn dettata, sempre, da un pezzo di carta preso a scuola , ma anche da doti naturali accresciute e cullate nel tempo)
Ecco dunque come passavano el loro estati i fiorentini del buon tempo, quando come dice Dante: “ era sicuro il quaderno e la droga” alludendo all’onesta dei mercanti che nn alteravano i libri e le loro misure.

E’ verò, però, che nn sempre fu così.

La storia registra, anche per Firenze, anni tristi, nei quali star fuori di notte era pericoloso. Il bando di Alessandro de Medici che proibiva ai fiorentini di passeggiar per le vie dopo il coprifuoco, con il rischio della vita, culmina in un periodo di fosca tirannide e di orrori.
Ma durò poco e il buon costume di frescheggiare, qua e là riprese il sopravvento per durare quasi fino alla metà del secolo scorso, finchè nn vennero di moda, epr divenire poi necessità, della vita borghese, i bagni di mare e le villeggiature.
Tant’è vero che nn molti anni addietro v’era ancora chi ricordava le panche che tutte le sere venivano regolarmente collocate presso le spalette del ponte A Santa Trinita e sulle quali, pagando un modesto quattrino, si poteva prender posto per godervi il fresco. Ma più che le panche si ricordava l’ometto faceto che esercitava l’onesto e poco lucroso mestiere del pancaro.
Costui era un certo Mani, uno di quegli autentici fiorentini dei quali ormai si è perduta la stampa; spesso si dilettava in frizzi, che erano immocenti battute di sapore politico contro il governo granducale.
Erano i tempi invidiabili, e per noi inverosimili nei quali il pane costava due quattrini alla libbra , e un fiasco di vino d’uva lo si poteva avere per una crazia. Chi guadagnava una giornata di due paoli , se la passava discretamente ; chi arrivava a mettere insieme cinque paoli era addirittura un signorino.

Ma al Manì, e chi sa a quanti altri dei suoi contemporanei, quelli parevano tempi economicamente disastrosi; sicchè nn mancava mai, di attirar il pubblico col suo ritornello “ Signori , e c’è il pan caro!” E siccome pareva pizzicasse un poco di poesia , quando era sicura di nn essere orecchiato dai Birri, canticchiava


“Gli è rincarato il vino,
Gli è rincarato il pane
Questo figloiol d’un cane
Nn se ne vuole andare”
Il figliol d’un cane era ….Canapone
Il toscano Morfeo
Che tenne , lemme,
Recinto di papaveri e lattuga,
Per la sau smania
D’eternarsi , asciuga
Tasche e maremme,

Il mani, era spesso, preso di mira , la gente si divertiva a fargli raccontare le sue infelicità coniugali avendo a quanto apre, una moglie di carattere bisbetico.
Quando venne la moda dei manicotti anch’essa aspirava a possederne uno. Per conseguire l’intento andava raggrannellando soldo a soldo pochi risparmi conservandoli gelosamente in un rispostiglio.
Un giorno il Mani riuscì a mettere le mani sul gruzzolo e, senza tanti complimenti , se n’andò all’osteria dove, manco a dirlo , se lo bevve in tante mazzette.
Rincasando alla sera , briaco a sufficienza trovò l’amara metà su tutte le furie. Ci fu un casino del diavolo di urla, di improperi, di lacrime.
Accorsero i castigliani , i passanti, e chiariti della ragione di quel putiferio, qualcuno rivolse parole di biasimo al marito, rimproverandogli la mala azione .
Ma questi senza scomporsi, facendo  anche più del consueto pel vino bevuto, rivolto agli astanti, disse loro:
“ Vu’ mi parete un branco d’imbecilli! Oh la un voleva immani-cotto? Più cotto di così i Mani la un l’ho potea avere!!”

( tratto da : Firenze attraverso i secoli  di Otello Masini)

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